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Éric Rohmer e la poetica della conversazione

2024-03-18 13:48

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Éric Rohmer e la poetica della conversazione

di Joaldo N’Kombo

Il cinema, partendo da quel 1895, ha sviluppato un suo linguaggio, delle regole e una sua grammatica. Ci si perde nel visivo, nelle figure e nelle forme di queste immagini in movimento per ricavare una narrazione, una storia dove esiste solo uno sguardo, una determinata angolazione, un’inquadratura. L’assunto di base è che nel reame cinematografico a regnare sia solo l’immagine. Ma cosa accadrebbe se si tentasse di sovvertire tale egemonia? Se per assurdo immaginassimo un cinema dove l’immagine si presenti come qualcosa di secondario? Cornice di un quadro che ha per soggetto altro? Potrebbe delinearsi davanti a noi un mondo fatto di parole, dialoghi, conversazioni. Una realtà di amori, dilemmi filosofici, corteggiamenti e giochi intellettuali. Quindi una dialettica che vede nel suo processo l’espressione di idee astratte tramite l’emotività dell’individuo, in un valzer in cui si scontrano tesi e antitesi, per giungere, in ultima analisi, a una sintesi, a una morale, a un insegnamento.



Stabiliti questi elementi, ecco ora che subentra l’immagine: appaiono volti e corpi, sullo sfondo campagne, spiagge, vie urbane, montagne e colline francesi. A un tratto la folle fantasia sovversiva diventa realtà, il quadro è dipinto e incorniciato, e la firma pone il nome di Éric Rohmer.



Quello di Jean Marie Maurice Schérer, in arte Éric Rohmer, è un cinema che si discosta dallo stile degli altri autori della nouvelle vague: nella messa in scena è minimalista, con la macchina approccia la realtà senza particolari spunti estrosi e il montaggio si limita a un linguaggio abbastanza classico. Ma a interessare è soprattutto l’emergere di una particolare delicatezza, che riesce a coinvolgere lo spettatore in una bolla sospesa fuori dal tempo. I film di Rohmer cullano la nostra percezione verso qualcosa di estremamente puro, raffinato e leggero.



Basterebbe prendere d’esempio Pauline alla spiaggia (1983), dove Pauline, ragazza di 15 anni, è in vacanza a casa della cugina più grande, Marion. Quì Rohmer articola una storia dall’atmosfera tipicamente estiva, che vede il suo svolgersi in un avanti e indietro tra la spiaggia del posto e le case vacanza dei personaggi.



Non a caso infatti, le sue storie, proprio come in Pauline alla spiaggia o il terzo capitolo del ciclo dei Racconti delle quattro stagioni (ovvero Un ragazzo, tre ragazze del 1996), si svolgono in momenti transitori dove è dato modo ai protagonisti, appartenenti prevalentemente a una classe della medio alta-borghesia, di occupare momenti di ozio e svago. In questa dimensione prospera l’analisi psicologica, punto cardine dell’intera opera del regista, e in tal senso, la serie dei Sei racconti morali è forse l’esempio più alto di tale approccio.



I Sei racconti morali vedono nel loro corpo un corto, un mediometraggio e quattro lungometraggi. In queste narrazioni, ognuna indipendente l’una dall’altra, si dipanano diverse figure maschili che riversano il loro interesse in due donne diverse, di carattere e valori opposti. Una di queste risulta sempre idealizzata, per questo più sfuggente. L’altra, invece, rientra per un motivo o per un’altro, più facilmente nella cerchia del protagonista. Alla




fine di ogni capitolo è messa in risalto una determinata scelta compiuta dal personaggio principale di turno, come risultato di un processo di crescita avvenuto durante il film.



Con questa costruzione, che si ripete nel corso di ogni capitolo della serie, Rohmer intesse una fitta rete di ritratti psicologici, di figure che dialogano tra di loro e che scavano l’una nella psiche dell’altra decostruendo, mettendo in dubbio valori e credenze.



La conversazione diventa oggetto principale, territorio in cui si muore e rinasce in un continuo processo di analisi e autoanalisi. Si è in uno stato in cui si pensa continuamente alle proprie azioni, a ciò che è stato compiuto e a ciò che ancora si potrebbe compiere; sulle possibilità che avvenga un determinato evento, sulle leggi del caso a cui è soggetto l’uomo.



Per questo, uno dei nodi centrali è il binomio fedeltà/infedeltà, come nel film L’amore il pomeriggio (1972), ultimo capitolo dei racconti morali, dove il protagonista Frédèric, sposato con la moglie incinta Hélène, vede tornare nella sua vita l’irriverente Chloé, vecchia conoscenza del passato.



Un film che si mostra come un trattato sul risveglio delle passioni di una vita stagnante, sul valutare l’eseguimento di un’azione o meno.



Ma è una questione, quella della fedeltà/infedeltà, che si applica su più livelli, non solo su quello relazionale, ma anche verso le convinzioni stesse dei singoli, che ridiscutono la loro stessa integrità. La dialettica di Rohmer è uno scontro tra forze che si traduce in poesia, in una lode alla fragilità, allo scorrere, alla mutevolezza dell’animo.



Un orizzonte filosofico espresso al suo massimo ne La mia notte con Maud (1969), pellicola che, per la densità degli argomenti trattati, è, probabilmente, il capitolo più dialogato nella serie dei racconti morali. La storia tratta di Jean Louis, un ingegnere di credenza cattolica tornato in Francia dall’America, che si innamora della giovane Francoise, incontrata una domenica a messa.



Una sera, Jean Louis, si vede poi con il suo compagno di scuola Vidal, professore di filosofia, che lo invita a cena dalla sua amica e amante Maud. I tre passeranno tutta la notte a parlare e a confrontarsi sul conservatorismo del protagonista.



Quella di Rohmer è un’immagine non invasiva, che, per quanto possibile in un media che fa del visivo la sua priorità, si fa da parte. Le conversazioni diventano mezzo con cui approcciare la realtà, per dipingere un mondo ritirato, non perfetto, pieno di crepe e a volte contraddittorio. Amori, passioni, indecisioni e gelosie sono gli ingredienti per costruire figure avvolte da un frivolo estetismo intellettuale, come ne La collezionista, o per mostrarci dei più classici inetti sveviani, come ne La carriera di Suzanne o La fornaia di Monceau, i primi due capitoli dei racconti morali.



Ma anche quando accentua questa dimensione patetica dei suoi personaggi, Rohmer li tratta comunque con cura, con una leggerezza che li rende vicini a noi. Come appunto la protagonista de Il raggio verde (1986), Delphine, che, vittima della sua inerzia, in uno stato di continuo autosabotaggio, è in una perpetua vacanza, alla ricerca di un posto dove sentirsi accettata e di una persona che la capisca, quando, allo stesso tempo, è lei stessa a rifiutare ogni posto, ogni persona. Il raggio verde è un film introspettivo, che ragiona sulle difficoltà che ci sono nell’intraprendere una conversazione e uscire dal proprio isolamento.




Rohmer, perciò, si distingue per il suo umanismo, per il suo “filmare la parola”. Sono pellicole, le sue, che insegnano quanta tensione, quanta azione possa esserci in un dialogo, in dei personaggi che affrontano elucubrazioni sui temi più disparati ma sempre attuali e universali, non è un caso che la sua opera sia un’ispirazione per registi come Luca Guadagnino o Mia Hansen-Løve. Se il mondo infatti è in continuo cambiamento, l’essere umano rimane sempre uguale perché attanagliato dalle sue emozioni, dalle sue paure, dalle sue credenze. E Rohmer, da letterato qual è stato, ha capito quanto fosse importante conversare per raffigurare tutto ciò, per esprimere con raffinata eleganza il peso e la leggerezza della parola, l’esistenzialismo dietro la vita umana.




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