di Luca Caltagirone I paesi dell’Europa settentrionale (Danimarca, Finlandia, Svezia, Norvegia ed Islanda), fanno parte di una realtà a sé stante dell’Europa, accomunati convenzionalmente sotto il nome di “paesi scandinavi”, presentano tra loro profonde diffeerenze socio-culturali. La rubrica si propone di analizzare le tendenze degli ultimi quattro lustri di quella che potremmo chiamare la New Wave del cinema scandinavo, ossia la nuova generazione di registi che, di fatto distaccandosi dai modelli precedenti, si propongono di indagare l’alienazione dell’uomo moderno e la sua incomunicabilità con gli altri individui. Occorre però, per avere un quadro più completo, fornire una limitata introduzione sul contesto artistico-culturale in cui si inserisce questo nuovo cinema, con un occhio di riguardo per il regista svedese che più di tutti ha rinnovato il cinema scandinavo degli anni Cinquanta e Sessanta: Ingmar Bergman. L’arte scandinava, intesa in tutte le sue sfaccettature, è tra le più affascinanti e originali d’Europa. Basti citare, in campo artistico, il celebre pittore norvegese Edvard Munch, il quale ha dato voce, atteraverso i suoi quadri, al travaglio esistenziale dell’uomo e alle contraddizioni della società moderna. Temi, tra l’altro, non tanto diversi da quelli del cinema della “New Wave” scandinava, vicina a tematiche quali l’alienazione e la crisi esistenziale dell’uomo moderno. Ma colui che forse ha più nutrito l’immaginario cinematografico scandinavo è stato il filosofo danese Soren Kierkegaard, pensatore fra i più apprezzati in Occidente e precursore dell’Esistenzialismo moderno. Centrale nella filosofia kierkegaardiana è il rapporto dell’uomo con Dio e con la religione: secondo il filosofo, Dio rappresenta il massimo ideale etico, un’entità trascendente e infinita, la cui esistenza richiede una fede assoluta da parte dell’individuo, il quale può superare l’angoscia solo affidandosi a un percorso intimo e autentico. Non a caso tutta la filmografia bergmaniana si concentra sul tema delle inquietudini religiose e sul rapporto con Dio, visto spesso come un’entità assente, non in grado di rispondere al richiamo dell’uomo. Figlio di un pastore protestante della corte reale, Bergman ha sempre avuto un rapporto ambiguo e contraddittorio con la religione, tanto che Sergio Trasattei lo definì “ateo cristiano”. Nel libro “Lanterna magica”,l’autobiografia del regista, si legge:“Veramente io non credo in Dio, ma la faccenda non è così semplice, tutti portiamo un dio dentro noi stessi, tutto forma una trama che ci pare a volte di riconoscere, soprattutto al momento della morte”. Spesso associato a registi come Resnais e Antonioni per il carattere intellettuale del suo cinema, il film che ha consacrato Bergman nella cerchia dei grandi registi internazionali è stato “Il settimo sigillo”. Nel film, girato con un bassissimo budget, il cavaliere Antonius Block incontra la Morte che gli dice che la sua ora è giunta. L’unica ancora di salvezza per Block sarà una famiglia di saltimbanchi, uniti dall’amore reciproco e da un sincero rispetto, che aiuterà il protagonista a ritrovare la fede e l’unione con Dio. La semplicità e la spontaneità della vita dei saltimbanchi aiuteranno Block a superare l’angoscia esistenziale e le inquietudini religiose, giungendo così, per un breve istante, a quella pace interiore di cui era andato, sino a quel momento, vanamente alla ricerca. Block sembra quindi aver compreso il vero senso della vita, cioè il potere della semplicità del quotidiano, delle cose che, anche se apparentemente insignificanti, rendono piena la vita. Sul finale, il protagonista afferma: “Lo ricorderò, questo momento: il silenzio del crepuscolo, il profumo delle fragole, la ciotola del latte, i vostri volti su cui discende la sera, Mikael che dorme sul carro, Jof e la sua lira... cercherò di ricordarmi quello che abbiamo detto e porterò con me questo ricordo delicatamente, come se fosse una coppa di latte appena munto che non si vuol versare. E sarà per me un conforto, qualcosa in cui credere.” Il titolo “Settimo Sigillo” è una citazione dell’Apocalisse di Giovanni e si riferisce a un rotolo di papiro chiuso da sette sigilli. Rompere il settimo sigillo significa rispondere alla domanda: “Cosa c’è dopo la morte?”. È la domanda esistenziale che l’uomo si pone sin dal principio e della quale è frustrato di non avere una risposta certa. Bergman compreso:“La Morte è un orrore senza soluzione, non perché dia dolore ma perché è piena di brutti sogni da cui non ci può svegliare” (Lanterna Magica, Autobiografia). Dunque, la morte e le inquietudini religiose ed esistenziali sono centrali nella poetica bergmaniana e sono tematiche che avranno il loro spazio anche nelle opere più recenti dei registi scandinavi. Si pensi a film come “Le onde del destino” o l’ “Antichrist” di Lars Von Trier, nei quali emerge, da parte del regista danese, una visione pessimistica della natura umana e della religione. Così come nel film del regista svedese Roy Andersson “Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza”, dove pessimismo e cinismo esistenziale si compenetrano nel racconto di svariati bozzetti sulla morte. La rubrica, a cadenza mensile, darà voce a questi nuovi registi scandinavi, ancora poco apprezzati nei circuiti mainstream, ma incredibilmente affascinanti per la loro sapienza autoriale e per l’originalità dei contenuti.