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Adolescence: fragilità generale in piano sequenza

2025-03-25 10:33

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Adolescence: fragilità generale in piano sequenza

di Nicola Bartucca

Ci sono film e serie che raccontano una storia e altre che la fanno vivere. Adolescence, la nuova miniserie Netflix, appartiene senza dubbio alla seconda categoria. Non è solo una narrazione, ma un’esperienza claustrofobica che ti stringe in una morsa e non ti lascia scampo. La scelta stilistica del piano sequenza continuo amplifica il senso di soffocamento, come se fossimo intrappolati con i personaggi in un vortice senza via d’uscita. La storia ruota attorno a Jamie (Owen Cooper), un tredicenne accusato dell’omicidio di una compagna di scuola. Una famiglia come tante si ritrova improvvisamente sotto i riflettori, costretta a fare i conti con la possibilità che il proprio figlio sia un assassino. Ma in Adolescence non esistono verità assolute: il concetto di giusto e sbagliato si sgretola, lasciando spazio solo al dolore, alla confusione, alla sensazione che qualcosa sia irrimediabilmente spezzato. 


La regia di Philip Barantini (Boiling Point) è spietata nel suo realismo. Ogni episodio è girato in un unico piano sequenza, senza stacchi, una scelta che costringe lo spettatore a un coinvolgimento totale e a un’angoscia crescente. Il caso di omicidio viene esplorato da diverse prospettive, rivelando lentamente non solo le dinamiche familiari e sociali che circondano Jamie, ma anche gli effetti devastanti del bullismo, del cyberbullismo e della sottocultura incel sui giovanissimi. Quest’ultima, sempre più diffusa nel panorama digitale, raccoglie giovani uomini che si percepiscono come "celibi involontari" (involuntary celibate), spesso sviluppando un senso di alienazione e risentimento che può sfociare in dinamiche autodistruttive o violente. 


La sceneggiatura, firmata da Jack Thorne (This IsEngland '86, This Is England '88, This Is England'90) e Stephen Graham, evita qualsiasi tentativo di spiegazione rassicurante. Adolescence non cerca colpevoli né redenzione, ma si addentra nei meandri della fragilità adolescenziale e nelle crepe di una società che preferisce non vedere. Il racconto lascia emergere il peso dell’invisibilità, del disagio che si nasconde nei gesti quotidiani, nelle conversazioni trattenute, nei silenzi che diventano muri invalicabili.


Il cast regala interpretazioni magistrali. Owen Cooper riesce a dare vita a un Jamie enigmatico, mai del tutto comprensibile, oscillando tra innocenza e oscurità con una naturalezza disarmante. Ma è Stephen Graham, nel ruolo del padre, a offrire la performance più straziante. Il suo Eddie è un uomo che cerca disperatamente di capire, di proteggere, di salvare – senza sapere come. Erin Doherty, nei panni della psicologa Briony Ariston, aggiunge un ulteriore strato di complessità, rappresentando la voce del raziocinio che in certe situazioni sembra inutile, visto che le persone restano continuamente incomprensibili, sospese tra il linguaggio del corpo e le profondità dell’anima. 


A conferma della sua forza narrativa e visiva, la serie ha ricevuto un plauso universale per la sua messa in scena, consacrandosi come una delle opere più intense e disturbanti degli ultimi anni. Un dettaglio potente è la scelta di non mostrare mai la vittima in vita: non la conosciamo, non ne vediamo il volto, eppure la sua assenza pesa come un macigno. È un vuoto che si allarga fino a inghiottire tutto, lasciando dietro di sé solo frammenti di vite – giovani e adulte – traumatizzate. E non c’è bisogno di chiedersi se riusciranno a ricostruirsi, perché da certi eventi si può solo restare distrutti. 


Ciò che resta è la sensazione di aver assistito a qualcosa di profondamente umano e doloroso. Adolescence non è una serie che cerca di dare risposte. È uno specchio che ci costringe a guardare una realtà scomoda: la fragilità di una generazione che si muove nell’ombra, in un mondo che non sappiamo più riconoscere.




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