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Dismorfismo corporeo e ossessione estetica: “The Substance”, lo specchio della contemporaneità

2025-07-22 17:58

Chiara Bosin

Dismorfismo corporeo e ossessione estetica: “The Substance”, lo specchio della contemporaneità

di Zito Stefano Pablo Il dismorfismo corporeo, in inglese Body Dysmorphic Disorder (BDD), rappresenta oggi una delle patologie psicologiche più emblem

di Zito Stefano Pablo

 

Il dismorfismo corporeo, in inglese Body Dysmorphic Disorder (BDD), rappresenta oggi una delle patologie psicologiche più emblematiche del rapporto distorto con l’immagine di sé.
Classificato nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-5) , il BDD si manifesta attraverso una preoccupazione ossessiva per difetti fisici percepiti, spesso minimi o inesistenti, e può condurre a comportamenti compulsivi come l’uso eccessivo di specchi, il ricorso reiterato alla chirurgia estetica e la reclusione sociale. Questa condizione, sempre più
diffusa anche tra adolescenti e giovani adulti , riflette un disagio che non è solo individuale, ma profondamente culturale: il corpo, da espressione identitaria, si è trasformato in un oggetto da correggere, perfezionare ed esibire.
The Substance (2024), secondo lungometraggio della regista francese Coralie Fargeat, presentato in concorso al Festival di Cannes dove ha ricevuto il premio per la miglior sceneggiatura, utilizza l’estetica del body horror per trasformare in immagini i vissuti psichici legati al dismorfismo corporeo, ponendo il corpo al centro di una critica incisiva all’ossessione contemporanea per la perfezione estetica. La protagonista Elisabeth Sparkle,
interpretata da Demi Moore, è un’ex star del cinema diventata un’insegnante di fitness televisiva, la cui carriera subisce un brusco arresto al compimento dei cinquant’anni, quando
viene licenziata in favore di una figura più giovane. In preda alla disperazione, Elisabeth scopre per caso ‘The Substance’, un siero miracoloso che promette di restituire la giovinezza.
Tuttavia, il trattamento non ringiovanisce il corpo esistente, ma genera un’altra persona «più bella, più giovane e più perfetta»: Sue, interpretata da Margaret Qualley, con cui Elisabeth
deve alternarsi settimanalmente. Il delicato equilibrio tra le due identità si incrina quando Sue inizia a trasgredire le regole, portando a una spirale di conflitto e autodistruzione. Il film
assimila questa dinamica al vissuto di molti pazienti affetti da BDD, per i quali il corpo reale si scontra irrimediabilmente con un ideale costruito tramite immagini sociali irraggiungibili.
L’alter ego fisico della protagonista trova un riscontro nei fenomeni contemporanei come la Snapchat dysmorphia , che spinge molte persone, soprattutto adolescenti, a sottoporsi ad 
interventi chirurgici per assomigliare a versioni filtrate di sé, creando una frattura tra immagine percepita e identità corporea. Nel cinema di Coralie Fargeat, il corpo non è più un
veicolo di identità, ma una materia da modellare, duplicare e rimuovere. Come nella realtà clinica dei pazienti che inseguono interventi su interventi senza mai raggiungere la
soddisfazione, anche Elisabeth scopre che la perfezione è un miraggio che divora chi lo insegue.

L’orrore indotto dalla società nella percezione quotidiana del corpo non si manifesta soltanto attraverso le consuete circostanze del genere cinematografico scelto, ma trova una
forza espressiva ulteriore nell’uso dei colori. La prima immagine di Elisabeth nel film si sofferma sulle sue calze e sul body blu, un colore storicamente legato alla sfera femminile
attraverso la figura della Vergine Maria, spesso raffigurata con un velo di quella tonalità. Questa scelta cromatica inscrive subito il personaggio in un immaginario del passato, associato a un’idea di femminilità idealizzata, ma ormai superata. In netto contrasto, la sua versione migliore, Sue, indossa un body rosa, colore che oggi incarna l’estetica femminile costruita dalla cultura pop e dai codici del mercato. La contrapposizione tra blu e rosa evidenzia visivamente due modelli di donna: quello relegato all’ombra dell’obsoleto e quello proposto come ideale conforme. Invece, il giallo del cappotto rimanda al tuorlo d’uovo della
prima sequenza e, per il fatto che sia Elisabeth che Sue lo indossino, simboleggia il mantra di The Substance: «Ricorda: tu sei una». Tuttavia, l’intento della regista non è soltanto denunciare la pressione esterna che spinge lepersone a ricorrere a soluzioni estreme per conformarsi a un ideale ristretto di desiderabilità.
Il suo obiettivo è anche quello di far vivere allo spettatore, in modo viscerale e immersivo, il costo fisico e psicologico che questa imposizione comporta. Questa dinamica alimenta un
circolo vizioso: più ci si avvicina all’ideale imposto, più esso si allontana, muta o si rende irraggiungibile. In questo scenario, il corpo non è più vissuto come espressione di sé, ma
come un oggetto da plasmare secondo lo sguardo altrui. Restituire valore alla diversità dei corpi e ridefinire collettivamente i concetti di bellezza e accettazione diventa, dunque, un
gesto non solo politico, ma profondamente umano.
Oltre al riferimento a Il ritratto di Dorian Gray (1890) di Oscar Wilde, il mostro ricorda simbolicamente Joseph Merrick, conosciuto come l’Uomo elefante nella società dell’età
vittoriana a causa della sua deformità fisica, che è stato già delineato nel cinema di David Lynch in The Elephant Man (1980) . Le scene conclusive di entrambe le pellicole convergono 
in un messaggio comune: il vero mostro non è chi ha ceduto alla pressione degli standard di bellezza, ma sono tutti coloro che alimentano e perpetuano il sistema che li impone. Il
giudizio collettivo, spesso camuffato da moralismo o pietà, si rivela come il volto più ipocrita e violento di una comunità che crea le sue vittime e poi le stigmatizza.
Coralie Fargeat costruisce un film che va oltre i codici del genere: The Substance si configura come un dispositivo critico che smaschera l’ideologia della bellezza come forma di
potere e strumento di violenza . La narrazione si allontana consapevolmente dalla linearità tradizionale, adottando una struttura frammentata che destabilizza lo spettatore. L’impianto
filmico disarticolato diventa espressione visiva del rifiuto di un modello univoco di corpo e identità, spalancando lo spazio ad una pluralità in cui la frattura e l’eccesso si affermano come
forme di resistenza e autenticità. In questo contesto, la chirurgia plastica non rappresenta un atto liberatorio, ma un gesto
coercitivo, una risposta distorta ad una pressione che può sfociare in condizioni psicologiche
gravi come il dismorfismo corporeo, dove la percezione alterata del proprio aspetto compromette il benessere e la vita quotidiana. Solo il rifiuto di questo paradigma e il riconoscimento della molteplicità dei corpi, con le loro imperfezioni, le loro storie e
vulnerabilità, può restituire dignità all’esperienza fisica. Adottando tale approccio, la regista consegna al mondo una testimonianza potente e inquietante, ricordando a tutti che il corpo
non è un difetto da correggere, ma una realtà viva da ascoltare, rispettare e difendere.

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