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IL LINGUAGGIO INVISIBILE: IL COLORE NEL CINEMA E LA SUA POTENZA EMOTIVA

2025-06-03 17:26

Angela Pangallo

IL LINGUAGGIO INVISIBILE: IL COLORE NEL CINEMA E LA SUA POTENZA EMOTIVA

di Angela Pangallo Nel vasto alfabeto del linguaggio cinematografico, il colore è forse il segno meno evidente, eppure tra i più potenti. Invisibile e

di Angela Pangallo

 

Nel vasto alfabeto del linguaggio cinematografico, il colore è forse il segno meno evidente, eppure tra i più potenti. Invisibile e onnipresente, il colore non si limita a decorare l’inquadratura: la plasma, la dirige, la trasforma in un’esperienza emotiva. Se il montaggio struttura il tempo e la narrazione, e la recitazione restituisce l’anima dei personaggi, il colore è ciò che permette allo spettatore di sentire prima ancora di capire. Esso comunica stati d’animo, tensioni interiori, identità culturali e persino evoluzioni narrative, incidendo in profondità sull’esperienza visiva. La storia del colore nel cinema è anche la storia della sua progressiva consapevolezza artistica. Nei primi decenni del Novecento, i film erano in bianco e nero, ma già si tentavano rudimentali tecniche di colorazione a mano (frame per frame) per animare scenografie o sottolineare momenti specifici. Con l’avvento del Technicolor negli anni ’30 – pensiamo al mantello rosso de Il Mago di Oz (1939) – il colore divenne uno strumento narrativo centrale. Tuttavia, è solo a partire dagli anni ’50, con l’affermarsi di una grammatica visiva più codificata, che il colore iniziò a essere utilizzato in modo coerente e sistematico come vettore di emozione. Registi e direttori della fotografia iniziarono a costruire palette cromatiche unitarie per interi film o sequenze, spesso in sinergia con il tono della storia e lo sviluppo dei personaggi. La relazione tra colore ed emozione ha una base neurofisiologica e culturale. Esistono risposte universali – il rosso, per esempio, stimola l’attenzione, il battito cardiaco, la passione e l’aggressività – ma anche connotazioni soggettive e storiche. In molte culture occidentali, il blu è associato alla malinconia, mentre il giallo può suggerire instabilità, follia o allegria, a seconda del contesto. Il cinema si appropria di questi codici per costruire la psicologia visiva delle sue storie. In Her (2013) di Spike Jonze, i toni caldi (arancioni, rossi tenui) accompagnano la solitudine emotiva del protagonista, rendendo la sua vita futuristica paradossalmente umana e sensibile. In Blue Valentine (2010), i flashback felici sono filtrati da una luce dorata e satura, mentre il presente doloroso si muove in tonalità fredde e desaturate, tracciando visivamente la parabola del loro amore perduto. Alcuni registi hanno sviluppato un’identità visiva così riconoscibile da essere definibile attraverso la loro palette cromatica. Wes Anderson, ad esempio, costruisce universi cromatici coerenti, pastello e simmetrici, capaci di esprimere al contempo ironia, nostalgia e ordine interiore. La sua estetica non è solo decorativa, ma profondamente narrativa: in The Grand Budapest Hotel (2014), i rosa e i lilla accentuano l’artificialità del mondo narrato, suggerendo una favola malinconica sul tempo che passa. Al contrario, Nicolas Winding Refn, in film come Drive (2011) o The Neon Demon (2016), utilizza colori saturi, neon e contrastati per creare tensione, erotismo e violenza. In Drive, il rosa shocking del titolo sui titoli di testa contrasta con l’estetica noir del film, anticipando la natura ambigua del protagonista: tenero e letale. Con l’avvento del digitale, il colore ha assunto un ruolo ancora più centrale, grazie alle infinite possibilità offerte dalla color correction e dal color grading in postproduzione. Non si tratta solo di correggere errori di esposizione, ma di costruire un mood. Oggi, ogni film ha la sua “LUT” (Look Up Table), ovvero un preset cromatico che ne definisce l’estetica visiva. Pensiamo a Joker (2019) di Todd Phillips: la fotografia vira verso toni verdi e ocra, sporcando l’immagine di una patina malsana che riflette il deterioramento mentale del protagonista. Oppure a La La Land (2016), in cui la saturazione estrema dei colori primari (blu, rosso, giallo) contribuisce a trasformare Los Angeles in una città da sogno, un luogo in cui la musica e l’amore fluttuano oltre la realtà. Non sempre il colore è statico: può evolvere insieme alla narrazione, diventare un vero e proprio arco visivo. In The Matrix (1999), il mondo reale è fotografato in toni freddi, mentre la simulazione è tinta di verde, distinguendo le due dimensioni e contribuendo all’immersione dello spettatore. In Requiem for a Dream (2000), Darren Aronofsky utilizza colori saturi e flash cromatici per rappresentare le allucinazioni indotte dalle droghe, intensificando la soggettività del racconto. Un esempio magistrale di colore narrativo è Hero (2002) di Zhang Yimou, dove ogni versione della stessa storia è raccontata attraverso una dominante cromatica diversa: rosso per la passione e la menzogna, blu per la serenità, bianco per la verità. In questo caso, il colore non solo accompagna l’emozione, ma diventa struttura drammaturgica. Ci sono film in cui il colore lavora in modo così sottile da sfuggire alla percezione conscia dello spettatore, eppure agisce profondamente. In Manchester by the Sea (2016), la palette è dominata da grigi, azzurri e blu spenti: nessun effetto spettacolare, solo una coerenza cromatica che accompagna la devastazione interiore del protagonista. In modo analogo, Nomadland (2020) sfrutta i toni dorati e terrosi del tramonto per suggerire un senso di appartenenza e spaesamento al tempo stesso: la bellezza del paesaggio americano diventa specchio della solitudine nomade della protagonista. Il colore, nel cinema, è un codice invisibile, un linguaggio emozionale che agisce sotto la soglia del razionale. Esso costruisce atmosfere, rafforza archetipi, orienta lo sguardo e amplifica le emozioni. Può raccontare l’amore, la follia, la speranza o la violenza con un solo frame, senza dire una parola. In un’epoca in cui il cinema lotta per la centralità culturale, riscoprire la potenza del colore significa riaffermare il potere visivo e sensoriale dell’immagine in movimento. E forse, in un mondo saturo di immagini veloci e dimenticabili, proprio il colore può restituirci la memoria di ciò che ci ha fatto sentire.

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