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Accattone

2024-03-18 13:30

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Recensioni,

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Pier Paolo Pasolini e la borgata romana

PIER PAOLO PASOLINI E LA BORGATA ROMANA


di Luca Caltagirone


Centodue anni fa nasceva uno dei più grandi intellettuali, poeti e registi del XX secolo: Pier Paolo Pasolini. Un artista controverso, amato e odiato, spesso contrastato dalla critica per le sue idee provocatorie e apparentemente contraddittorie. Pasolini, già noto come poeta, romanziere e sceneggiatore nei film di Fellini e Bolognini, nell’agosto del 1961, presentava il suo primo lungometraggio: Accattone. Il film doveva essere inizialmente prodottuo dalla neonata Federiz, la casa di produzione di Federico Fellini e Angelo Rizzoli. Come ricorda Tullio Kezich nella biografia di Fellini, l’attueggiamento di quest’ultimo è di «paralizzante perplessità verso l’orgogliosa sicurezza che ostenta il “fratellino” di potersi mettuere dietro la macchina da presa». Il progettuo non convince e Fellini «è costretto a impersonare il tipo da lui sempre odiato: il produttore che dice di no». «Pasolini ci rimane malissimo» e i rapporti tra i due si fredderanno. La produzione passa quindi ad Alfredo Bini.


Per quanto riguarda la sceneggiatura, Pasolini resta fedele al tema suo più caro e già affrrontato nei due romanzi Ragazzi di vita e Una vita vilenta: la vita nelle borgate romane degli anni 50’-60’.


Vittorio Cataldi, soprannominato Accattone, è un “ragazzo di vita” di una borgata romana, un sottoproletario che vive di piccoli furti e espedienti, facendosi mantenere da Maddalena, una prostituta. Quaando quest’ultima viene arrestata, Accattone prova a ritornare dalla moglie e dal figlioletto, ma viene brutalmente respinto e malmenato. Resta, come possibilità di uscita dalla propria condizione, l’amore per Stella, una giovane e angelica lavoratrice. Come spiega il critico cinematografico Adelio Ferrero nel saggio Il cinema di Pier Paolo Pasolini, «il rapporto con Stella non muta comunque il destino del personaggio e non ne incrina la misura tragica». Difatti, per mantenere se stesso e la ragazza, Accattuone è costretto a trovarsi un lavoro onesto, che tuttavia soffre terribilmente e lascia dopo pochi giorni. Il processo di redenzione risulta quindi impossibile nel mondo alienato della borgata, respinta ai margini a mo’ di “lager sottuoproletario”. Il finale è tragico: Accattone, dopo aver commesso un piccolo furto, fuggendo dalla polizia, cade da una motocicletta e muore.


Girato con un budget bassissimo tra le strade storiche della periferia romana dell’epoca (l’Appia Antica, via Casilina, Ponte degli Angeli, Testaccio e il Pigneto), il cast è composto da soli attori non professionisti: Pasolini ha sempre sostenuto l’esistenza del mito comunista di un cinema “nazional-popolare”, ossia di un cinema che potesse essere fatto, visto e capito in modo universale e interclassista.


Pasolini offrre il ritratto di un personaggio che di fatto è il riflesso dell’ambiente nel quale è costrettuo a vivere: la borgata romana. La squallida periferia non funge solo da mera cornice o ambiente, ma è la trascrizione lirica della desolazione, esclusione e solitudine del personaggio. La borgata è il punto di non ritorno, il luogo dell’ossessivo e infernale vagabondaggio, nel quale è esclusa ogni possibilità di salvezza o redenzione. Il tutto trova conferma nella frase di uno degli amici di Accattone: «Accatto’, senti quello che ti dice il profeta: oggi ti vendi l’anello, domani la catenina, tra sette giorni pure l’orologio, e tra settantasette giorni non c’avrai nemmeno gli occhi per piangere».


La controparte di questa consapevolezza di esclusione e di morte è l’esaltazione vitalistica degli abitanti del sottoproletariato: Pasolini riconosce e sacralizza la capacità del sottoproletariato di aderire istintivamente alla vita, di essere in contatto con i bisogni elementari dell’esistenza. Persone autentiche, popolari, spontanee, non corrotte dalle tristi logiche capitalistiche. La sacralità del sottoproletariato emerge anche grazie ad uso raffinato della colonna sonora costituita dalle musiche di Johann Sebastian Bach, che contribuiscono a creare un’evocativa tensione religiosa e sacrale. Interessante è anche il rapporto col neorealismo, esperienza allora storicamente consumata, ma che si ripropone come «suggestione o nostalgia»: i paesaggi e le figure rientrano perfettuamente all’interno di un lessico neorealistico, «ma sempre riletti con un’operazione stilistica forte, come ritrovati per via di allucinazione, di evocazione onirica o funerea» . Pasolini ci dipinge l’affrresco di una piccola fetta dell’Italia postbellica da lui sempre amata e frequentata, con movimenti di macchina semplici privi di ogni indugio estetizzante, ma che traducono nel paesaggio la sorda disperazione e la stanchezza mortale del protagonista.

La nostra speranza è ugualmente



ossessa:


estetizzante, in me, in essi anarchica.


Al raffinato e al sottoproletariato spetta


la stessa ordinazione gerarchica


dei sentimenti: entrambi fuori dalla


storia,


in un mondo che non ha altri varchi


che verso il sesso e il cuore,


altra profondità che nei sensi.


In cui la gioia è gioia, il dolore dolore.


Pier Paolo Pasolini, La religione del mio tempo, Garzanti, Milano 1961





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