di Chiara Albertelli Il male non esiste è un appello alla coscienza individuale di ciascuno, una riflessione sul libero arbitrio (è poi così libero?) e la privazione al diritto di vita in una società comandata da un governo conservatore e quindi repressivo, incapace di comprendere e interpretare i desideri del suo popolo. Viste le tematiche di cui tratta, il film è stato girato senza alcuna autorizzazione e mai distribuito nel Paese che racconta: siamo nell’Iran contemporaneo e la pellicola si compone di quattro distinti capitoli in cui viene affrontato, da diverse prospettive, il tema della pena di morte e come le sue implicazioni e conseguenze abbiano a che fare non solo con chi il giudizio capitale lo infligge, lo esegue o lo subisce ma con tutti i cittadini. Noi che la pena di morte non la conosciamo e viviamo nel privilegio di chi può permettersi di ignorarne l’esistenza, fatichiamo a comprendere cosa possa significare perdere la vita per decisione di un governo - decisione e non mano perché le mani ce le mettono i ragazzi obbligati alla leva militare, ragazzi obbligati a togliere la vita ad altri ragazzi come loro, meccanicamente, ubbidendo e senza ragionare sulle conseguenze delle proprie azioni, per ottenere una licenza di tre giorni e fare ritorno a casa dai propri affetti e poi, finalmente, il congedo e una patente, un passaporto per poter viaggiare, un lavoro per mantenersi e quindi il rispetto e l’approvazione altrui. Chi decide che tu dovrai perdere la vita è un governo che ti condannerà per aver espresso un pensiero, per un orientamento sessuale o l’appartenenza ad una minoranza etnica; certo, ci sono poi veri reati per cui in Iran si può andare al patibolo e tra questi ci sono stupro, omicidio, apostasia, terrorismo ma anche l’adulterio ed il possesso di droga. Alcuni di questi sedicenti delitti (omosessualità e disaccordo con il potere per citarne alcuni), benché non possano più essere formalmente considerati reati punibili con la pena capitale, spesso vengono mascherati con semplici espedienti al fine di poter garantire il risultato voluto dal regime: far pagare con la propria vita. Propria e degli altri, mi permetterei di aggiungere, perché è grazie a questo ritratto crudo e diretto se anche noi fortunati a non essere là riusciamo ad avere anche solo una minima percezione di che cosa possa significare vivere in uno Stato in cui è in vigore la pena di morte e come questo condiziona anche la vita di tutti quelli che materialmente non tolgono lo sgabello da sotto i piedi dell’impiccato, quelli che non premono nessun bottone ma non per questo vengono risparmiati dal dolore o sottratti alla morsa del senso di colpa ma anzi vengono ugualmente sconvolti da dilemmi morali. Anche la vita normale delle persone normali si ritrova a dover fare i conti con la pena di morte. Storicamente il cinema iraniano racconta situazioni e condizioni locali e una delle ragioni per cui è così concentrato sulle vicende dentro ai confini è legato all’impossibilità di molti di poter emigrare e quindi confrontarsi con ciò che è altro e magari diverso e quasi sicuramente distante da quelli che sono i dettami rigidamente imposti da un regime dispotico e coercitivo, un regime che fa dell’arbitrarietà della privazione del diritto alla vita uno strumento politico di repressione per intimidire i propri cittadini e addestrarli alla sottomissione, al silenzio e quindi ad una qualche forma di consenso. E tu che cosa avresti fatto al posto suo? Il regista ci chiama in causa facendo appello al nostro senso etico più che morale, alla libertà individuale che ognuno di noi dovrebbe poter esercitare ma non è sempre così facile, anche se in un paio di questi capitoli vengono incarnati splendidi esempi di dissenso civile ed il pesante fardello che ne ha conseguito: attraverso un approccio documentaristico ai drammi personali, prendiamo involontariamente parte ai dilemmi di ragazzi che si interrogano sul senso e sul diritto di togliere la vita. Altri spunti di riflessione vengono offerti dalla figura della donna, amata tra le mura di casa ma pur sempre subordinata alla controparte maschile, in una forma di silenziosa accettazione dello status quo. Tuttavia, le donne di questa pellicola ci mostrano alcuni atti di trasgressione al regime, gesti che ai nostri occhi potrebbero sembrare di poco conto ma che calati in una realtà teocratica e repressiva, il cui sistema legislativo è basato sulla sacra legge della Sharia, rivelano la forza di chi è stanca di farsi sottomettere e quindi assisteremo alla tintura dei capelli e all’ammissione che dover indossare il velo tutti i giorni non è “fico”. Non ho potuto non pensare che solo due anni dopo la presentazione di questo film una giovane ragazza curdo-iraniana di 22 anni a Teheran ha perso la vita per mano della polizia religiosa e in circostanze sospette per aver indossato il velo islamico in modo sbagliato: la morte di Mahsa Jina Amini ha causato indignazione pubblica e la nascita di numerose proteste scandite dallo slogan Donna Vita Libertà, divenendo simbolo della condizione femminile all’interno di un regime di violenza e oppressione della figura femminile. A distanza di un anno perderà la vita Armita Gerevand, altra giovane donna curdo-iraniana, aggredita dalla polizia morale per non aver indossato l’hijab nella metropolitana della stessa città che solo un anno prima aveva visto morire Mahsa Jina. Fa male notare che nonostante alcuni fulgidi esempi di slancio e di coraggio, il tempo è circolare e per questo sembra destinato a ripetersi: da giovane il governo ti obbliga alla leva militare, quando cresci poi ti assume come boia e quello diventa il lavoro con cui mantieni la tua famiglia e se per caso trovi il coraggio di sottrarti a questo gioco di morte, sappi che in qualche modo tu e la tua famiglia ne pagherete le conseguenze. Anche il regista Mohammad Rasaoulof è stato vittima di questo sistema e costretto alla permanenza in patria a seguito di una sentenza che lo aveva definito “propagandista contro il governo islamico”. Nel 2020, quando vinse l’Orso d’oro nella categoria miglior film al Festival di Berlino, non ritirò personalmente il premio perché costretto agli arresti domiciliari a Teheran; pochi giorni dopo la premiazione del film venne condannato ad un anno di carcere e al divieto di girare film per due anni a seguito di una sentenza in cui tre delle sue pellicole sono state ritenute propaganda contro il regime iraniano. Rasoulof è consapevole del ruolo che è chiamato ad esercitare in quanto artista e per questo non si sottrae alla responsabilità che pensa che un artista debba possedere e dimostrare dentro al sistema o contro al sistema perché è suo compito ritagliare uno spazio dentro al quale poter esprimere liberamente il proprio dissenso al di sopra delle repressioni, consapevole che manifestando il proprio pensiero verrà isolato, censurato. Una menzione speciale va alla musica, alla voce di Milva nella sua interpretazione di Bella Ciao, canzone legata non solo ad un trascorso partigiano ma in questa versione al lavoro delle mondine e quindi al valore del lavoro in condizioni agevoli. Milva ma anche Toomaj Salehi, giovane rapper iraniano condannato a morte, famoso tra gli attivisti per i suoi testi di esplicita critica al governo e per il suo supporto all’Ucraina. È quindi vero che il tempo è destinato a ripetersi? Non ho la presunzione di avere la risposta giusta ma sappiamo che pochi giorni fa Rasoulof ha dovuto scegliere tra la prigione e una vita da dissidente lontano dalla propria casa e ha confermato tramite un messaggio pubblicato su Instagram di essere riuscito a lasciare l’Iran dopo essere stato condannato a cinque anni effettivi di carcere, espropriazione dei beni e fustigazione con l’accusa di aver fatto parte di un complotto contro la sicurezza nazionale attraverso i suoi film e documentari. I mullah iraniani avevano tentato di dissuaderlo ma a poco è servito: il suo nuovo film intitolato Il seme del fico sacro verrà presentato alla 77esima edizione del Festival di Cannes e racconta di questi anni di repressione del dissenso a Teheran, della persecuzione delle ragazze che rifiutano di indossare il velo islamico e vengono picchiate dalla polizia morale, di impiccagione di giovani dell’opposizione. Sappiamo anche che ora Mohammad Rasoulof è in Europa e chissà se questa volta presenzierà al festival.