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La chimera

2024-03-17 20:13

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Recensioni,

La chimera

Una fiaba tra moderno e antico

UNA FIABA TRA MODERNO E ANTICO
di Ginevra Zaretti

Cinema orfico, cinema di fiaba. A scandire la ricerca di Alice Rohrwacher da autrice è forse questo, un ritorno al racconto che allontana dal moderno, quasi a non permettere all’oggi di prendere piede, e di rimanere tra gli scarti e i contadini che compongono la sua antologia filmografica.



Anche se, per certi versi, è proprio con “La Chimera”, ultimo film della regista in concorso per il festival di Cannes 2023, che ci viene offerta un’occasione notevolmente più ambiziosa delle precedenti, facendo il punto sul ruolo che simili narrazioni hanno sul contemporaneo. A partire da come la regista dimostri una maggiore dimestichezza nel mescolare fiaba, antico e moderno, raddoppiata da quei materiali filmici che riportano a una cinematografia trapassata, tutta da rinvenire – scegliendo l’uso di formati multipli e di questa pellicola spesso graffiata e sporca. Terra da cui emerge il passato, insomma, la stessa in cui affonda le mani l’allegra banda di tombaroli che nel film fa da protagonista– le stesse mistiche figure che nell'Italia degli anni '8o depredavano le tombe etrusche tra Lazio e Toscana in cerca di tesori da rubare.



A guidare la combriccola è Arthur (Josh O' Connor), archeologo straniero, inizialmente trasferitosi per amore dell'antichità, di nuovo in Italia dopo un periodo di allontanamento forzato, ed è proprio Arthur a “avere le chimere”: identifica dove sono seppelliti i tesori.



Seguito fedelmente dagli altri ragazzi, Arthur cerca qualcosa che va oltre il desiderio di sbarcare il lunario. Sta nella ricerca della sua amata Beniamina (Yile Yara Vianello), ormai scomparsa da tempo, il centro del suo viaggio tra antichità e morti. Arthur è ospitato dalla madrina dei tombaroli, la signora Flora (Isabella Rossellini), nella sua villa ormai in declino mentre le sue figlie cercano di convincerla ad andarsene, sullo sfondo della villa si affaccia Italia (Carol Duarte), la giovane aiutante e apprendista della signora, che, superando l'atteggiamento burbero di Arthur, si lega al ragazzo.



In seguito alla scoperta di una statua particolarmente pregiata i nostri tombaroli si trovano ad affrontare la spietata Spartaco (Alba Rohrwacher), commerciante di opere, ma al momento dello scambio e dell'apparente rivincita dei ragazzi si palesano dei dubbi: è giusto profanare l'antichità? È giusto rivendicare un guadagno per quest'arte? In una scena memorabile Arthur sceglie una strada singolare, abbandonando sia i compagni che la commerciante d'arte, gettando in mare la testa della statua, per restituirla alla dimensione sacrale che si impone come snodo tematico del film: quella del non-visto, fatto di sommersi, di reliquie che sono tali finché sono nascoste e mitizzate. Come, del resto, vale per la stessa Beniamina: ereditando il mito di Orfeo ed Euridice, la morte della giovane diventa per Arthur l’oggetto di una ricerca impossibile, a cavallo tra il nostro e l'altro mondo, che sta a confermare il divieto ancestrale di far risorgere i nostri lutti. Arthur è sacrilego, scomoda i morti e le loro tombe: forse, sta in questo la tenuta ideologica della stessa Rohrwacher, che con lui si addentra in un tempo dell’Italia oramai irraggiungibile, calato quasi mezzo secolo alle nostre spalle.



Per certi versi, si assiste al viaggio di un eroe fiabesco, appartenente al racconto popolare: Arthur viene cantato dai bardi, quasi come se stessimo assistendo alla genesi di un racconto che verrà tramandato oralmente.



E ai piedi di questa fiaba che ci racconta come spesso nel cinema della Rohrwacher le soglie della modernità (si, c'è la ruralità certo, ma ci sono anche le fabbriche e lo yacht dove avviene il confronto con Spartaco) qualcosa riesce anche a rinnovarsi, c’è la nascita di una comunità di donne nella stazione abbandonata del paese, quest'isola felice s’impone come piccolo nucleo di resistenza a qualcosa di nuovo che è nell'aria, nello scontro tra antichità e progresso, questa visione solare di cura e solidarietà appare come un punto di fuga, a




cui però il nostro protagonista perennemente tormentato rifugge per fare l'errore di Orfeo: voltarsi.



I personaggi della regista sembrano spesso essere figure a ridosso della fine del tempo, che si trovano ad affrontare qualcosa che rompe la circolarità delle loro esistenze. Non a caso, gli eventi sembrano come incrinarsi: questa seconda venuta di Arthur in Italian sembra mettere tutto fuori posto, Beniamina non c’è, nascono dubbi sul suo essere un tombarolo, tutto appare lontano da un prima che però noi non vediamo. E alla fine, Arthur non riesce a tornare da nessuna parte, nemmeno alla terra (tanto presente anche questa nella filmografia della regista), muore infatti in mezzo al cemento, quasi un richiamo all'Emilia del “Teorema” pasoliniano, condannata dai palazzi tra cui si sdraia. L’avvento inarrestabile dell’oggi scaraventa fuori dal mito: i nostri personaggi sembrano andare incontro a una morte affine a quella di Arthur – prevista dunque dai tarocchi, un destino con cui non si può negoziare –. Manca, letteralmente, la terra da sotto i piedi, quella da scavare e coltivare: nulla di quelle esistenze può sopravvivere ed essere compreso dall’urbanizzazione che sta sullo sfondo, al punto da allontanare la Storia stessa (ogni riferimento a Morante è voluto) nella sua possibilità di ripetersi, di riaffiorare.



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