SCHERMI MAGAZINE

CONTATTACI
SOCIAL
E-MAIL

Italia


instagram

schermimagazine@libero.it

SCHERMI MAGAZINE

© Schermi Magazine

SENSUALITÀ SOVVERSIVA CONTRO IL POTERE: “UN CHANT D’AMOUR” DI JEAN GENET

2024-09-21 20:33

Array() no author 82619

Recensioni,

SENSUALITÀ SOVVERSIVA CONTRO IL POTERE: “UN CHANT D’AMOUR” DI JEAN GENET

di Bianca Arnold

Ebbene, uno stretto rapporto esiste tra i fiori e gli ergastolani. La fragilità, la delicatezza dei primi sono della medesima natura della brutale insensibilità dei secondi. Ch’io abba da raffigurare un forzato - o un criminale - sempre lo coprirò di tanti e tanti fiori ch’esso, scomparendovi sotto, ne diventerà un altro gigantesco, nuovo. (Genet, Il diario del Ladro, 3)

Un secondino spia furtivamente attraverso lo spioncino della porta di una cella. Taglio. Al centro dell’inquadratura la pupilla del secondino è ritagliata dal cerchio dello spioncino. Scopophilia. Quale immagine la potrebbe riassumere in maniera migliore? L’oggetto dello sguardo, di cui solo sappiamo che ha ucciso (dalla scritta sulla porta della cella “meurtre”), sembra non sapere di essere guardato/spiato/desiderato. Oppure, non ricambiando lo sguardo, mette in atto un potere contrastante, rendendosi partecipe della fantasia erotica/coercitiva della guardia, in questo modo sovvertendola. Subito dopo, sempre non ricambiando lo sguardo del secondino, l’assassino inizia a cospargere di baci se stesso, la sua pelle, una pelle espansa, che è anche la pelle degli altri delinquenti, ma non è e non sarà mai, la pelle del secondino. Una pelle lurida e sudata come quella delle statue dei martiri/peccatori dell’arte cristiana.



Un chant d’amour è l’unico film realizzato dallo scrittore Jean Genet nel 1950, con la collaborazione di Jean Cocteau. Jean Genet fu scrittore e delinquente, poeta dell’omosessualità e dei margini, delle carceri, dell’indicibile. Visse tra il 1910 e il 1986, nascita e morte a Parigi. Fu una delle figure più controverse del Novecento, la seconda parte della sua vita lo vede coinvolto attivamente nei movimenti di liberazione, avvicinandosi per un periodo alle Pantere Nere e all’OLP.



Un Chant d’Amour è il suo unico film che, a causa della censura, verrà proiettato pubblicamente solamente nel 1975.



1975, anno allo stesso tempo della pubblicazione di Michel Foucault di Sorvegliare e Punire e di Laura Mulvey, Visual pleasure and Narrative Cinema.



Un’opera che mostra chiaramente (ed allo stesso tempo ne è un’anticipazione) il discorso cinematografico femminista che nasce dall’incontro di questi due testi rivoluzionari. Un discorso che vuole sottolineare come avviene la “costruzione” dello sguardo, e come tale costruzione non sia naturale né neutra, bensì intessuta in un regime di normalizzazione eteropatriarcale bianco.



Lo scopo di Laura Mulvey è di analizzare “dove e come la fascinazione del cinema è rinforzata da una preesistente sistema di fascinazione che è già in atto all’interno del soggetto individuale e nelle forme sociali che lo hanno modellato” (1975, 14). Facendo questo emerge l’interpretazione socialmente imposta ed accettata della differenza sessuale che controlla il desiderio e la sua rappresentazione. L’intento è di usare concetti psicoanalitici come arma per squarciare il velo dell’inconscio della società patriarcale che ha forgiato l’arte cinematografica. Il testo di Mulvey è un testo rivoluzionario che ha acceso il fuoco della rabbia femminista nel cinema dando il via a tutto un nuovo modo di fare film e di guardare in generale.



Tuttavia ci troviamo ancora in un panorama eteronormativo. Mulvey, infatti, analizza la circolazione/formulazione del desiderio nel cinema partendo dalle categorie di “uomo” e “donna”, unica combinazione possibile di desiderio.



Ecco che, mettendo questo testo in relazione con Un Chant d’amour, ci si può aprire un varco verso la de-naturalizzazione del binarismo di genere dato dall’eteronormatività, e quindi mettere in discussione l’idea/concetto di “uomo e donna” (Wittig, 1980). Arrivare, in questo modo, alla visione butleriana di performatività del genere, a come il genere non è qualcosa di “naturale” o “innato”, non ha caratteristiche intrinseche a tali categorie, ma come qualcosa che si “fa” (Butler, 1996).



Quello che voglio fare in questa critica è rivedere il testo di Mulvey e, mettendolo in relazione con il film di Genet, riflettere su chi incorpora la “donna” e come.



Al discorso della circolazione/formulazione del desiderio, in Un Chant d’Amour, è necessario intrecciare un discorso sul potere, sul potere dello sguardo (che è un discorso centrale anche in Mulvey) e su come tale potere agisca attraverso tecnologie biopolitiche. Questo può essere fatto con l’analisi del panopticon di Bentham da parte di Foucault in Sorvegliare e punire (1975) pubblicato lo stesso anno di Mulvey, e lo stesso anno della prima proiezione pubblica dell’unico film di Genet. Un potere dello sguardo che va quindi oltre di esso ed agisce sui corpi, che attraverso sguardi/bio-tecnologie di controllo, vengono divisi in dualismi necessari al mantenimento della struttura coercitiva (e della società del controllo, altro concetto foucaultiano). Dualismi come sano/malato, pericoloso/innocuo, normale/anormale (Foucault, 1975, 199).



Trovo interessante come il film di Genet da una parte sia la rappresentazione filmica di tali testi e analisi sociali, ma dall’altra li metta anche in discussione aprendo le porte a discorsi che vanno oltre il binarismo, e oltre la disciplina. Il mio esperimento vuole mostrare come gli amati delinquenti di Genet, e in cui Genet si identifica, incorporano attivamente sia la posizione dell’oggetto del desiderio, quell’oggetto che per Mulvey è la donna, interagendo con la dinamica di potere messa in atto dal sistema penitenziario e dalla figura della guardia, la sovvertono attraverso le loro fantasie desideranti.



“Il desiderio della donna è soggiogato dalla sua immagine di portatrice di una ferita sanguinante; può esistere solo in relazione alla castrazione e non può trascenderla” (Mulvey, 1975, 14). La ferita è la castrazione, ovvero la perdita del fallo. Ora, al posto della donna, vediamo come nel film di Genet tale posizione è impersonata dai delinquenti omosessuali, che sono vittime del potere scopofilico della guardia e dello spettatore, e quindi che il loro desiderio, secondo l’analisi di Mulvey, esiste solo in relazione alla castrazione. Essi sono uomini castrati, sia in quanto omosessuali (considerati come non-uomini dalla società), sia in quanto carcerati (privati della libertà, e quindi di un possibile rapporto sessuale).



Allo stesso tempo vengono identificati principalmente a partire dal loro pene, e dall’uso che ne fanno. Pene che da una parte viene visto come “malato” e “perverso” in quanto non implicato in dinamiche di riproduzione sociale normativa, dall’altra è più che reale e centrale, in quanto la relazione con il pene diventa ciò che definisce la loro identità e il loro rapporto con il mondo. In Un Chant d’Amour si vedono diversi peni, e anche quando non si vedono la loro presenza viene continuamente evocata da una mano appoggiata sull’interno coscia avvolto dal pantalone.



Che il fallo di cui essi sono castrati sia la pistola della guardia?



Vediamo la guardia far inginocchiare il delinquente e inserire la canna della pistola tra le sue labbra: impossibile non pensare ad una fellatio, in cui l’ “altro” viene doppiamente fatto inginocchiare, in un gioco di potere sia sessuale che istituzionale. Tuttavia, come James Roselman ci fa notare nel suo interessante articolo Second-hand Touch: Jean Genet Un Chant d’Amour pubblicato nella rivista di critica cinematografica Another Gaze: “La sequenza è spesso interpretata come una metafora della fellatio, ma una pistola non è un pene, e le politiche sessuali di Genet sono più sottili. Il secondino mette la sua pistola dove non metterebbe mai il proprio pene. Tocca il carcerato solo con le armi: la pistola e la cintura. La sua beatitudine deriva dal potere non dal piacere” (Roselman, 2022, 222).



I delinquenti desiderano la pistola del poliziotto? Assolutamente no, e questa potrebbe essere la sovversione della scopofilia e del panopticon messa in atto da Genet.



“La canna della pistola può forzare la bocca ad aprirsi senza paura, la carne di un uomo non è così resistente. La guardia in Un Chant d’Amour non rischia la sua vulnerabilità. Egli può solo provare piacere erotico nelle sue fantasie, dove il suo corpo si muove in armonia con quello degli altri uomini” (Roselman, 2022, 223). Secondo l’articolo di Roselman, la guardia si ritrova ad avere fantasie di “seconda mano” che tuttavia non lo portano al godimento di esse. Le sue sono fantasie solitarie, in cui i corpi sono frammentati e depersonalizzati, ed evocano immagini (i fiori e la sigaretta condivisa) che sono fantasie condivise dai detenuti.



Il contatto-non-contatto che avviene tra i detenuti decentralizza lo sguardo attraverso i battiti sul muro, attraverso l’accarezzarsi della propria pelle, attraverso il fumo passato da una bocca all’altra. Attraverso una fantasia condivisa.



Il poliziotto rimane a livello dello sguardo, appropriandosi delle loro fantasie ma senza poterle condividere. Le sue fantasie sono pezzi di corpi maschili avvolti dalla mancanza di landscape, da un nero profondo e senza prospettiva. L’unico contatto che avviene tra uno dei detenuti e la guardia non avviene in un rapporto tra corpi, attraverso l’organo della pelle, ma attraverso la pistola e la cintura, organi del potere. Il corpo del fuorilegge è un corpo espanso, che rinchiuso nella propria pelle e allo stesso tempo rinchiuso nella propria cella evade dai confini della forma e della disciplina attraverso la fantasia e il desiderio, attraverso le carezze su un muro, attraverso il fumo di sigaretta condiviso tra una fessura, attraverso un mazzo di fiori lanciato e afferrato attraverso le inferriate:



Il cinema secondo Mulvey, offre diversi possibili piaceri. Uno di questi è la scopofilia ovvero il piacere di guardare. Freud in Tre saggi sulla teoria sessuale (1905) parla della scopofilia come un piacere che agisce indipendentemente dalle zone erogene. Sempre Freud associa la scopofilia con il considerare le altre persone a degli oggetti, soggiogandoli ad uno sguardo di curiosità e controllo (Mulvey, 1975, 16). Può diventare una “perversione” (anche l’omosessualità viene efinita da Freud una perversione), quando il soggetto che guarda prova soddisfacimento sessuale unicamente dal guardare, in senso di controllare, l’altro in una posizione di “oggetto” (17). Il cinema dunque soddisfa questo desiderio.



Ecco che Mulvey afferma : “In un mondo governato dallo squilibrio sessuale, il piacere di guardare è stato diviso in attivo/maschile e passivo/femminile” (19) (allo stesso modo in cui le autorità che esercitano un controllo sulla persona in una istituzione di potere secondo Foucault).



Il processo messo in atto dalla scopofilia in un contesto in cui vige una disuguaglianza di genere tra uomini e donne provoca quindi l’impossibilità, secondo Mulvey, di posizionarsi nella posizione di soggetto, rimanendo sempre quindi nella posizione di oggetto del desiderio, a uso e consumo dello sguardo maschile (20). Qui ci connettiamo a Foucault quando parla del detenuto come inserito in una architettura di controllo visuale, il panopticon appunto, in cui non può mai assumere la posizione di soggetto: “Ogni individuo, al suo posto, è confinato in sicurezza in una cella da cui viene visto frontalmente dal guardiano; ma le pareti laterali gli impediscono di entrare in contatto con i suoi compagni. Egli viene visto, ma non vede; è l’oggetto dell’informazione, ma mai soggetto in comunicazione” (Foucault, 1975, 200).



La donna sullo schermo, per Mulvey, e il detenuto in prigione, per Foucault, sono impossibilitati ad essere soggetti.



Questo perché, secondo Foucault, nel momento in cui il contatto viene a mancare, si elimina anche il pericolo di complotto, il pericolo che gli individui possano diventare massa: “La folla, una massa compatta, luogo di multipli scambi, individualità che convergono insieme, un effetto collettivo, viene abolita e rimpiazzata da una collezione di individualità separate”(1975, 201). Con la creazione di “individualità separate”, si contrasta la potenza di un “divenire singolare-plurale” che può essere sovversivo per la norma (Nancy, 2000). Si potrebbe notare come questo avvenga non solo all’interno di strutture riconosciute come coercitive (quali la prigione) ma nella società tutta, in quel processo in cui lo stato necessita di forze per disciplinarci, e allo stesso tempo per proteggersi. Mulvey osserva come l’uomo controlli la fantasia del film e rappresenti allo stesso tempo la posizione di potere possedendo lo sguardo dello spettatore. Questa posizione nel film di Genet ci fa sentire incomodi, come se fossimo insieme al poliziotto a spiare dentro le celle. Con il coincidere del potere dello sguardo con il potere dello sguardo erotico per Mulvey lo spettatore si posiziona automaticamente nell’unica soggettività possibile, quella dell’uomo (maschio eteronormativo bianco) (Mulvey, 1975, 20). Ecco che riportando questo processo al film di Genet, si arriverebbe a dire: il fuorilegge omosessuale non è un uomo.



Tutta l’opera letteraria di Genet spiraleggia attorno a questa domanda, con un ghigno di scherno, come se i ladri, gli assassini, i marinai dalle sue pagine ci guardassero dritti negli occhi e girando il coltello tra le dita ci chiedessero: quindi non sono un uomo? Ma chi è uomo? Colui che detiene il potere, la pistola, il fallo, il poliziotto?



Nella figura del fuorilegge Genet evoca il rifiuto di collaborare, nè con la famiglia nè con lo stato e, attraverso questo rifiuto, l’individualità si dissolve in un corpo espanso, in una pelle espansa, da cui il poliziotto, simbolo di potere, è escluso. Questo avviene tramite la partecipazione al gioco erotico del potere. Pensato come luogo di disciplina e repressione, il carcere, attraverso le immagini liriche di Genet, diventa luogo di una sensualità sovversiva che rigetta il potere istituzionale, rigetta il poliziotto, facendolo confrontare con la sua solitudine. Rigetta l’individualità singola e si apre verso un divenire molteplice.



L’ultima scena: la guardia ha finito il suo turno, esce dalla struttura carceraria e assiste al lancio del bouquet che viene finalmente afferrato attraverso le inferriate. Il contatto è riuscito. La guardia ne è esclusa. Ripresa di un muro su cui sono incise le lettere M. A. V. che sta per “Mort aux Vaches” il corrispondente francese di “morte ai porci (n.d.r. la celere)”.




Anche se non sono sempre belli, gli uomini votati al male possiedono le virtù virili. Di loro volontà, o grazie a una scelta per loro operata da un qualche infortunio, s’inabissano lucidi e senza cerimonie in un elemento di riprovazione, ignominioso, simile a quello in cui l’amore, quand’è profondo, precipita gli esseri. I giochi erotici rivelano un mondo innominabile che il linguaggio notturno degli amanti rende palese. Un tale linguaggio non si scrive. Lo si sussurra di notte in un orecchio, con voce arrochita. All’alba, lo si dimentica. Negando le virtù del nostro mondo, i criminali disperatamente acconsentono a organizzare un universo proibito. Accettano di viverci. V’è un’area nauseabonda: riescono a respirarla. Ma - i criminali sono remoti da voi - come nell’amore essi si isolano e mi isolano dalla società e dalle sue leggi. Il loro, è un mondo che odora di sudore, di sperma e di sangue. (Genet, Il Diario del Ladro, 3-4)

CONTATTACI
SOCIAL
E-MAIL

Italia


instagram

schermimagazine@libero.it

© Schermi Magazine