di Nicola Bartucca Da pochi giorni è sbarcata su Netflix una pellicola sci-fi profondamente umana, presentata come Evento Speciale al 74mo Festival del Cinema di Berlino. Il film è tratto dal romanzo “Il cosmonauta” di Jaroslav Kalfar, dove la ricerca del principio “di tutto” è l’emblema costante nel corso degli eventi. La costruzione intima dei personaggi, striata da riflessioni metafisiche, rende la visione più di prosa che di fantascienza. Veniamo lanciati nella storia di un uomo, di un paese e di una nazione alle prese con il loro passato e che allo stesso tempo sentono la necessità di proiettarsi verso il futuro, aprendosi alla scoperta di nuovi mondi e di nuove creature. La narrazione ci porta nella penombra della terra vista dallo spazio che resta a metà strada tra fantascienza, memoria, sentimento, e a fare da sfondo è una Repubblica Ceca che si trasforma insieme al suo personaggio. Nella trasposizione cinematografica il tema focale rimane la solitudine, grazie anche a una sorprendente interpretazione di Adam Sandler. L’attore statunitense si è sempre ritagliato la sua comfort zone nella commedia americana, da Terapia d’urto, 50 volte il primo bacio a Mia moglie per finta, ma come ha fatto già precedentemente in carriera, dimostra nuovamente la propria versatilità. Altre volte infatti si è cimentato in ruoli drammatici uscendone contro ogni pronostico, indenne e anche molto credibile. Lo ricordiamo in “Punch Drunk Love” di Paul Thomas Anderson, “Reign Over Me” di Mike Binder e il monumentale “Diamanti Grezzi” dei fratelli Safdie. In “Spaceman” ritroviamo una prova attoriale degna di nota nei panni di Jakob Prochazka, un cosmonauta in missione nello spazio da 189 giorni, in totale isolamento con l’obiettivo di ottenere informazioni sul principio dell'universo e dell'esistenza, legato a una misteriosa nube viola che occupa i cieli da ormai diversi anni. In concomitanza alla ricerca di risposte, vediamo l’astronauta confrontarsi con i mostri interiori – legati soprattutto alla mancanza della moglie Lenka - attraverso il rapporto con un ragno alieno di nome Hanus, doppiato da Paul Dano. L’alieno, affascinato dal languido stato di solitudine di questo “umano pelle e ossa” - come lo chiama lui –, cerca di capire il motivo delle turbe che lo sovrastano. Hanus fa ripercorrere a Jakob, con sincera impertinenza, i flash della sua vita quando si trovava sulla terra, dall’infanzia e il rapporto con il padre, alla crescita e la carriera lavorativa, ma soffermandosi in particolar modo nei momenti determinanti della sua relazione con Lenka. È così che l’uomo pelle e ossa e l’alieno ci regalano un affascinante viaggio introspettivo. È plausibile ipotizzare che Hanus sia stato creato dalla mente di Jakob per aggrapparsi ai propri sentimenti e lambire al meglio la propria solitudine; reale o non, l’alieno si rivela il mentore del protagonista nella realizzazione della storia - come il Grillo Parlante per Pinocchio o la Volpe per Il Piccolo Principe - e si dimostra fondamentale per accompagnare Jakob in un percorso di conoscenza personale nel comprendere i problemi della propria psiche e delle relazioni perdute sul suo pianeta madre. Il grande Pasolini diceva "Io avevo voglia di stare da solo, perché soltanto solo, sperduto, muto, a piedi, riesco a riconoscere le cose" ed è anche vero che allontanarsi da tutto fa vedere le cose per intero, ma solo mettendole insieme, si possono capire veramente le cose. Ce lo mostra con tutti i suoi chiaroscuri, l'anima di un astronauta talmente occupato a guardare nel cielo da perdere di vista ciò che ha lasciato sulla terra e proprio grazie a un alieno riuscirà a ripercorre un percorso estremo e introspettivo, arrivando alle risposte tanto desiderate. Forse una risposta non è mai veramente una risposta ma è già un miracolo che la vita ci abbia donato una domanda.