Sguardi tra donne. Una breve analisi di Un’ora sola ti vorrei di Alina Marazzi Un’ora sola ti vorrei è un film di Alina Marazzi del 2002. Forse sua opera assoluta, è una pellicola che ha decisamente lasciato una traccia nel panorama del documentario italiano contemporaneo, sempre se di documentario vogliamo parlare. Un film d’archivio multimediale e soggettivo, personale e politico. La regista infatti tesse e narra la storia della madre suicida attraverso il montaggio di film amatoriali, fotografie, lettere e diari. Diari a cui la stessa regista-figlia dà voce, rendendo una storia personale un atto politico. Avviene, usando le sue stesse parole, lo scambio di uno “Sguardo di donne che guardano altre donne” (Marazzi in Bertozzi e Pannone, 2007, 91). Questo soprattutto grazie alla collaborazione della montatrice e amica Ilaria Fraioli. Una riappropriazione e un riconoscimento di un lignaggio femminile attraverso lo scambio di uno sguardo tra donne, tra la regista e la madre sulla pellicola, e lo sguardo di queste attraverso quello della montatrice. Attraverso tali incontri di sguardi Alina si riconnette a sua madre e al lignaggio femminile ma anche a quello maschile, essendo proprio il cinema amatoriale ciò che rappresenta, citando Bertozzi, i “sogni autoriali dei padri di famiglia” (Bertozzi, 2013, 165). Assistiamo dunque ad un rapporto fra micro e macro storia, che è anche un rapportarsi, in quanto donna, ad una Storia che è sempre stata la storia dei padri. Si rapporta a suo padre, personaggio onnipresente e tuttavia invisibile, a cui sono (forse?) indirizzate le parole d’amore con cui si apre il film: “Tu hai inventato l’amore per me”. Padre che ha cresciuto Alina mentre la madre passava da una casa di cura all’altra, ma anche compagno della madre e suo amato “oppressore” (in senso molto ampio) in quanto figura maschile sociale di riferimento. La madre inizia a soffrire fortemente di depressione quando inizia infatti a confrontarsi con il suo obbligato ruolo sociale di moglie e madre, ruolo per cui forse, e se lo chiede lei stessa, non era tagliata. Questo la fa sentire sbagliata, colpevole. Certo, la depressione è qualcosa che si ha dentro, uomini e donne, ma il peso che Liseli, la mamma di Alina, prova nel confrontarsi con il suo ruolo di donna non fa che accrescerlo. E in questo, Antonio, suo amore, è (forse) involontario partecipe. Lui è il marito, colui che lavora, e a cui lei quindi si deve rapportare in quanto moglie e madre dei suoi figli. Non perché questo lo chieda esplicitamente Antonio (e forse anche) ma perchè questo è ciò che viene richiesto nella società eteronormativa patriarcale. E il lavoro di Antonio, antropologo visuale, anche lì, è rappresentare, raccogliere immagini, filmare. Un rapporto tra sguardi e raccoglitori di immagini. Ecco che con questo film Alina non parla solo della madre, e non si avvicina solo a lei. Incorporando la madre attraverso la voce, e come ricorda Raymond Schafer “udire è toccare a distanza”, affronta anche il nonno Hoepli, il grande editore ed autore dei film di famiglia. Attraverso i diari, ( e qui mi chiedo: se la videocamera è “il sogno autoriale del padre di famiglia”, può essere il diario il sogno autoriale della madre di famiglia?) Alina, sì diventa la madre, e diventandone voce ne diviene corpo, ma allo stesso tempo rende la madre autrice, e la sua scrittura pubblica. La figlia diventa editrice della madre, la porta nel mondo, così come il nonno editore non era mai riuscito a fare. Alina Marazzi ci fa chiedere dunque che cosa sia un documentario, ponendoci di fronte alla, usando le parole di Stella Bruzzi: “negoziazione tra le polarità di oggettività e soggettività, offrendo un’analisi dialettica di eventi e immagini che accetta che nessun documento non-finzionale possa raccogliere tutta la verità e, allo stesso tempo, accettando che ri-usare o ricontestualizzare tale materiale non vuol dire irrevocabilmente sopprimere o distorcere il valore e il significato che possiede” (Bruzzi, 2000, 39). Ripetizione. Ripetizione di fotogrammi che cambiano senso senza confutare quello precedente. Così parti di diario. Il bellissimo volto sotto al cappello di paglia di Liseli è sia ritratto di amore che di solitudine e dolore. “Tu hai inventato l’amore per me” è frase di dedizione e gioia, come anche di vincolo e limitazione. Non c’è verità, né nella storia personale, né tantomeno nella Storia. Questo tornare ancora e ancora sulle parole della madre, sulla sua scrittura, sul suo volto, scrutare, cercare, nelle cartelle cliniche, nelle lettere, negli elenchi delle spese. Cosa si cerca? Si cerca perché non si può smettere di cercare, perché la verità non è mai una, lo sappiamo, e nonostante tutto non si smette. Perché la morte nella sua ovvietà e naturalezza è inspiegabile. La malattia nella sua banalità è inspiegabile. E le immagini non spiegano, ma mostrano ed evocano. Ma anche fanno performare. Così le immagini amatoriali provocano la messa in atto di una performance, quella della famiglia, della gioia, della normalità. Di fronte ad una telecamera tutte le famiglie sono felici, tutte normali, tutte gioiose. I bambini ridono e i genitori si amano. Tutti sono belli. “Marazzi ricorda che alla visione delle sequenze girate dal nonno si rendeva conto di quale costruzione scenica sottintendesse quella società, di come essere spensierati e felici costituisse quasi una necessità pubblica, ben al di là dell’apparente ingenuità del film di famiglia” (Bertozzi, 2013, 165). Nella sua estrema e materiale realtà, è ciò che c’è di meno reale nella vita di una famiglia. O piuttosto, crea un’altra realtà. Crea paradisi, come afferma Derek Jarman (2022, 115), una realtà paradisiaca per un tempo che deve ancora venire, per figli che devono ancora nascere, azioni che un giorno saranno memoria (che i diari vengano scritti per essere sempre traccia di un dolore?). Parlando del film amatoriale di Zapruder (n.d.r. dell’assassinio Kennedy), Stella Bruzzi afferma che “ci mostra tutto e non ci mostra niente” (ibid, 18). Così i film amatoriali della mamma di Alina, anche rallentandoli, anche “rastrellandone” i diari, la scrittura, i referti medici: ci mostrano tutto, eppure non ci mostrano niente. “Il documento, anche se reale, è incompleto” (ibid, 21). La ricerca di Alina, la sua opera d’arte, è proprio “il risultato di un disperato desiderio di trovare qualcosa plausibilmente umano tra il gioco di luce ed ombra” (ibid., 19). Un’Ora Sola Ti vorrei ci mette su un carosello di prossimità e distanza, tra l’intimità che si crea con la voce della regista che diventa quella della madre e il suo sguardo che è una carezza sul volto di quest’ultima, ma che ci rende spettatori e anche complici di una distanza. La distanza vissuta da Liseli con la società tutta, che la isola in quanto malata, che la porta in quella tanto ben descritta da Sylvia Plath, “campana di vetro”. Una distanza che è quella tra noi e lo schermo, tra noi e l’immagine, tra noi e quelle ombre che sono reali nella loro irrealtà. L’archivio è infatti una realtà che è ormai illusione, la documentazione di qualcosa che non è più. Luce fattasi unica, materia rimasta del tempo. In questo ritornello di prossimità e distanza non è possibile non evocare una sorellanza con Chantal Akerman, immensa regista belga, che del rapporto con la madre ne ha fatto tutto un percorso filmico, e la cui depressione ha portato alla morte. In News from Home (1976) ascoltiamo le lettere dalla madre che le chiede di scrivere più spesso, si alternano “Quando torni da New York?” a “So che non ti vedrò presto”. Da un film in cui la regista cerca la madre suicida attraverso le sue parole passiamo ad un film in cui la regista suicida viene cercata attraverso le sue parole dalla madre. La madre la sta cercando, attraverso la scrittura. Chantal sembra sfuggire nella folla attraverso l'immagine, nel traffico, nelle strade, nei palazzi. Nelle immagini di piani lunghi della città di New York si materializza una distanza tra la regista e le cose, le persone. Non c’è nemmeno tanta differenza tra le cose e le persone. La regista è quella che osserva e che viene cercata, immersa in un flusso di realtà in cui lei si posiziona ma non interagisce. La macchina da presa è statica, impassibile. Anche questa è una presa di posizione intima. Anche questa è una ricerca. Cosa sta cercando, Chantal, nella città? La stessa madre a chiederglielo “Cosa fai? Con chi vivi? Dove vivi?”. Pian piano il rumore dei treni della metropolitana sovrasta le parole della madre che non sono più distinguibili. Luogo di intimità con estranei, la metropolitana, che crea una distanza con le parole della madre e la sua ricerca della figlia-regista. Una prossimità con la città che rende più difficile il contatto con essa. Ma forse si tratta anche di un ritrovarsi che può avvenire solo fino ad un certo punto, a causa della lesbicità di Chantal, che sì rientra nel lignaggio, ma non del tutto. Chantal non si rapporta ad un uomo, né al padre né ad un amante, e con esso non tenterà neanche di riconciliarsi. Lo sguardo qui è di desiderio femminile per il femminile, di un cinema che si fa la sua storia e la sua strada, anche se spesso ignorata.
di Bianca Arnold