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L’IMMAGINE DEL TEMPO

2024-03-17 17:16

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L’IMMAGINE DEL TEMPO

Nel cinema di Tarkovskij il tempo diviene racconto

NEL CINEMA DI TARKOVSKIJ IL TEMPO DIVIENE RACCONTO
di Filippo Bardella

Il piano sequenza è una delle tecniche più elaborate, affascinanti e complesse del linguaggio cinematografico e consiste nella rappresentazione di una serie di scene tramite un’unica inquadratura, una ripresa continua senza stacchi che si prende la responsabilità di descrivere un’intera sequenza di azioni e comprende un intero segmento narrativo. L’assenza del montaggio esterno implica un’equivalenza tra il tempo della Storia e il tempo del Racconto. Questa isocronia tra inquadratura e spettatore costringe quest’ultimo ad essere testimone del fluire del tempo nel corso della ripresa, ed è su questo concetto che il regista russo Andrej Tarkovskij basa tutta la sua riflessione artistica. Nel cinema l’uomo ha trovato il mezzo per imprimere il tempo, registrarlo e riprodurlo a piacimento. Dal tempo dipende il ritmo, considerato l’elemento dominante e costitutivo del cinema senza il quale non esiste il film. Esso non è determinato dal montaggio ma si costituisce prioritariamente in base al movimento ed alla tensione del tempo all’interno dell’inquadratura, è costruito su un personale modo di cogliere e rappresentare la realtà e la vita. Tarkovskij si confronta dunque con i grandi maestri sovietici, teorici del cinema di montaggio, e oppone loro una concezione diametralmente opposta. Inaugura una forma di cinema “del tempo ininterrotto” composto da piani sequenza, long take, inquadrature statiche o in lentissimo movimento, dove l’esasperata durata di situazioni ed atmosfere non è solo frutto di soluzioni tecniche ma costituisce l’essenza stessa della rappresentazione. Il tempo nel cinema diventa avvertibile nel momento in cui si percepisce che ciò che è rappresentato non si esaurisce all’interno dell’inquadratura ma si estende all’infinito, fa parte di una verità che allude alla vita stessa. Le lunghe inquadrature che caratterizzano il suo cinema sono dunque delle meditazioni filosofiche visualizzate, mezzi per raggiungere una verità non terrena, bensì spirituale. Per Tarkovskij l’arte nella sua forma più pura tende sempre verso l’ideale, esprime ciò che non esiste nella realtà quotidiana, in essa vi è uno slancio verso l’infinito, il suo cinema è quindi volto alla rappresentazione del Completamente Altro, del trascendente. Da questo punto di vista si pone in continuità con Robert Bresson regista francese con cui intrattiene uno stretto rapporto teorico e concettuale. Pur non arrivando all’estremo formalismo e rigore di Bresson, ne condivide la tematica ricorrente della liberazione ed elevazione spirituale dell’individuo, e soprattutto la concezione di cinema come arte assolutamente autonoma. Condanna ogni tipo di contaminazione con la letteratura ed il teatro, abbandonando progressivamente tutti quegli elementi ed effetti esteriori che ostacolano la strada verso il cinema come arte pura e indipendente. Giunge quindi alla concezione e realizzazione di un cinema che tende all’assoluto, in cui l’idea interiore del regista trova espressione nell’immagine, la quale subisce un processo di sfondamento e passa da univoca ad ampia e indefinita. Rispetto alla parola che non può descrivere l’infinito, l’immagine permette di crearne un’illusione, permette di parlare dell’infinito proponendo il finito. Nel cinema di Tarkovskij forse più di ogni altro è il Tempo a diventare Racconto, allontanandosi progressivamente dal predominio della narrazione. Nel corso della sua carriera infatti tende a ridurre e concentrare l’azione, ad eliminare tutti gli elementi superflui che sono d’impaccio alla resa dell’idea originaria, giungendo in particolare negli ultimi film ad un’incredibile compattezza ed organicità, ad un cinema capace di osservare la vita senza evidenti intromissioni nel suo corso. In particolare Tarkovskij, rifiuta tutte quelle convenzioni drammaturgiche mutuate dalla letteratura, dal teatro e dalla pittura che impediscono di ricreare la vita nella sua autenticità, tutti quelli artifici (che Bresson definisce “paraventi”) finalizzati al coinvolgimento emotivo dello spettatore. Tra questi vi sono dunque: un eccesso di letterarietà nella sceneggiatura e la costruzione di un complesso intrigo, il montaggio non spontaneo e simbolico, la recitazione tendenziosa che semplifica la complessità dell’essere umano ed anche l’uso del colore (che Tarkovskij tende a neutralizzare con improvvisi cambi di tonalità verso il bianco e nero o il seppiato), il quale agisce violentemente sullo spettatore e ne altera la percezione di verità. Il film “Nostalghia” rappresenta il massimo esempio di coerenza con questi principi, di onestà e sincerità del regista nei confronti di sé stesso, di fedeltà ad una idea e ad una propria condizione interiore. Penultimo film di Tarkovskij e primo girato fuori dalla patria, in esso sono racchiusi i temi più cari al regista tra cui il rapporto con le proprie radici e la crisi spirituale dell’uomo moderno. La nostalgia fisica e spirituale non è espressa dall’intreccio narrativo, che è quasi assente, ma si rivela in termini esclusivamente cinematografici. Il film è composto principalmente da lunghe riprese statiche o lente panoramiche e carrellate a cui Tarkovskij affida una funzione narrativa creando un rapporto oppositivo o armonioso con il contenuto, esse sono quindi responsabili dell’espressione degli stati d’animo dei protagonisti e della creazione dell’atmosfera di cupa disperazione che permea il film. Ecco che quindi l’ultimo disperato tentativo di salvezza spirituale del protagonista, la simbolica sovrapposizione tra ragione, fede e follia costituisce la ripresa più lunga di tutta la sua opera, un piano sequenza della durata di quasi nove minuti in cui l’esasperante lentezza e ripetitività del rito trasforma l’inutilità del gesto in cupa sacralità facendo vivere allo spettatore l’esperienza estrema del sacrificio.



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