di Filippo Bardella “È la semplicità che è difficile a farsi” Questa frase per Bertold Brecht è un manifesto politico, associata all’arte cinematografica di Wim Wenders si trasforma in una dichiarazione di poetica, assume il senso di una precisa collocazione estetica. La semplicità stilistica e sostanziale di Perfect Days è il punto d’arrivo dell’eterogeneo percorso artistico del cineasta tedesco, regista instancabile, sempre pronto ad esplorare nuovi confini della realtà, in una continua ricerca di modalità rappresentative in grado di restituire la pienezza della vita. Percorso artistico che lo ha portato ad attraversare ed osservare con occhio acuto, umano e cinematografico, numerosi paesi e culture dall’Europa e gli USA fino a Cuba ed il Brasile. Un viaggio continuo che culmina con il ritorno in Giappone quasi quarant’anni dopo “Tokyo-Ga”, questa volta non con un documentario ma con un film di finzione, di produzione e lingua giapponese, che non è solo un altro omaggio al regista Yasushiro Ozu, ma è un continuo ideale della sua opera conclusasi sessant’anni prima con “Il gusto del sakè” e la sua prematura morte. L’influenza del maestro nipponico non si esaurisce solo nel nome del personaggio principale (Hirayama come quello dei protagonisti di “Viaggio a Tokyo” e “Il gusto del sakè”), né in dirette citazioni formali (inquadratura ad altezza tatami spesso utilizzata all’interno della casa), ma è da ricercarsi nello stile compositivo del film e nella poetica indissolubilmente legata alla filosofia e all’arte dello Zen. L’opera di Ozu non può essere compresa se non interpretata alla luce della conoscenza della cultura e tradizione giapponese; il legame con lo Zen giustifica ognuna delle particolari scelte compositive del regista e gli permette di giungere a rappresentare qualcosa che è più profondo di ciò che è visibile. Il principio fondamentale dello Zen è il mu, il concetto di negazione e privazione, dunque il vuoto, il silenzio e l’immobilità sono elementi positivi e rappresentano la presenza piuttosto che l’assenza di qualcosa. L’arte orientale ed in particolare l’arte Zen aspira intrinsecamente al trascendente, attraverso rigore ascetico e massima sobrietà Ozu rivela l’intima armonia ed unità di tutte le cose, l’eterno presente in continua espansione in cui “adesso è adesso e un’altra volta è un’altra volta”. Solo abbracciando questa prospettiva si può provare ad entrare nel cinema di Ozu, così come solo questo punto di vista può fornire le chiavi di accesso al mondo di Hirayama, protagonista di Perfect Days, è la cultura Zen che conferisce significazione ad un’esistenza apparentemente indecifrabile. Tuttavia Wim Wenders non è certo un epigono del maestro giapponese, indubbiamente ne è influenzato ma non si deve commettere l’errore di credere che “Perfect Days” sia solamente un tentativo di creare un film “alla Ozu”, così come non è solamente un’ode alle piccole cose, né tantomeno un invito ad accontentarsi. Perfect Days è un omaggio alla quotidianità, alla monotonia, alla ripetitività dei gesti. Ma non è solo questo. Perfect Days è il racconto della vita di Hirayama, o per meglio dire, è un viaggio che lo spettatore compie preso per mano dal regista alla scoperta della vita di Hirayama. Chi vede il film cerca di capire qual è il segreto, cosa c’è dietro la rasserenata placidità del protagonista, si pone domande sul suo passato, su cosa lo ha portato ad essere com’è. Ammira e nello stesso tempo invidia la sua capacità di stupirsi ed emozionarsi per una canzone sentita per l’ennesima volta, per un riflesso sul metallo, per una fotografia apparentemente uguale a tante altre o semplicemente per uno sguardo al sole mattutino durante uno sbadiglio. Rimarrà certamente deluso chi desidera risposta a queste domande, chi si impegna ad interpretare dialoghi ed eventi, quando solo la contemplazione dei silenzi e dei vuoti può riempire lo schermo di significato perché è il suono che crea e dà forma al silenzio cosi come è la pienezza che conferisce valore al vuoto e all’assenza. Il quasi ottantenne Wim Wenders sembra quasi rinunciare a riflettere polemicamente sulla realtà che lo circonda, tuttavia riesce in uno a fare molto di più: in soli quindici giorni di riprese, partendo da quello che inizialmente doveva essere un documentario sui bagni pubblici di Tokyo, crea un mondo. La realtà di Hirayama non corrisponde alla nostra, sembra quasi che le problematiche del nostro mondo vi si affaccino rimanendo però sempre tangenti quasi senza avere il coraggio di entrare. Wenders astrae completamente il suo protagonista portandolo in un mondo fittizio che costruisce sul simulacro di Ozu, e arreda con libri, cassette musicali e macchine fotografiche analogiche. Un mondo che appartiene ad un altro tempo ma che non viene spazzato via dal contatto con la modernità e la frenesia dell’oggi, pur trovandosi in uno stato di perenne incertezza e caducità riesce a trasmettere quel sentimento di rassegnata nostalgia e consapevole serenità. Così Wim Wenders realizza l’ aware, quello stato d’animo di “simpatetica tristezza” che caratterizza il cinema del suo maestro. Perfect Days non è forse altro che un’oasi di pace, un grido di speranza, un ultimo disperato tentativo di voler credere che ci sia ancora spazio per mondi come quello di Hirayama.