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IO E ANNIE

2024-03-22 12:27

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Recensioni,

IO E ANNIE

“Mi resi conto che donna fantastica era – e di quanto fosse divertente solo conoscerla…”

di Nicola Bartucca



“Io non vorrei mai appartenere a un club che contasse tra i suoi membri uno come me”. Woody Allen si presenta così nei panni di Alvy Singer, sguardo fisso sulla macchina da presa, aprendo il sipario a una delle più incantevoli delle commedie alleniane (e non).


Il regista newyorkese scrive e dirige una storia sentimentale e autobiografica. Tutto il film, sembrerebbe un’ode alla compagna dell’epoca, la deliziosa Diane Keaton in forma straripante con le sue gag, i suoi sorrisi, le sue improvvisazioni e il suo look da Mary Poppins: interpretazione che le varrà l’oscar come migliore attrice protagonista.


Dietro l’omaggio alla Keaton è camuffato però tutto l’egocentrismo di Allen, il vero protagonista, il paziente sul lettino dello psicoanalista: “ci vado da 15 anni, gli do un altro anno, poi vado a Lourdes”. Un Alvy Singer che vediamo alternarsi dentro al film e al suo esterno, in un connubio tra protagonista e osservatore.


“Io e Annie” non è solo l’archetipo di tutte le commedie di Woody Allen, è l’essenza della sua arte e del contrasto uomo e donna nell’eterna incapacità di capirsi, è l’incanto di una New York che prova a essere onesta e genuina – che scopriremo definitivamente in Manhattan nel ’79 - opposta straordinariamente al resto del mondo.


La prospettiva è solo apparentemente individuale, poiché l’inadeguatezza di Alvy è anche il prezzo di un decennio che ha bruciato gli ideali romantici dei ‘60, inseguendo nuovi miti: il successo, la libertà sessuale, la vita da single, l’emancipazione femminile.


Anche la sceneggiatura del film vincerà l’Oscar, in essa troveremo infatti tutti gli ingredienti indispensabili a una commedia: dialoghi scoppiettanti, humour, ritmo, leggerezza, intelligenza, malinconia. La magia si nasconde anche nei tanti, memorabili dettagli: le aragoste che guizzano tra le mani nel tentativo di fare un fotografia, il sapone nero, la chiamata in piena notte per via del ragno nel bagno, gli sguardi disinteressati verso un’altra donna che parla del concerto dei Rolling Stones e di Just Like a Woman di Bob Dylan, e ancora, il copricapo spaziale di Annie e la sua guida spericolata mentre Alvy si chiede se la donna abbia fatto scuola guida sui carri armati. Il tutto è reso memorabile da una regia fatta di piani sequenza, flashback, cambi di fotografia tra New York e Los Angeles e inserti d’animazione nel mondo di Biancaneve; regia che porterà poi a casa il premio Oscar nella sua categoria.


Non credo che Io e Annie sia il film più bello della storia del cinema, anche perché sarebbe un giudizio fortemente personale e inappropriato, tuttavia, un finale che prosciuga e inonda lo spirito dello spettatore come quello del miglior film agli Oscar ’77 (forse) non è mai stato scritto:
“…Dopodiché si fece molto tardi, dovevamo scappare tutt’e due. Ma era stato grandioso rivedere Annie, no? Mi resi conto che donna fantastica era – e di quanto fosse divertente solo conoscerla… e io pensai a quella vecchia barzelletta, sapete… quella dove uno va da uno psichiatra e dice: “Dottore, mio fratello è pazzo. Crede di essere una gallina.” E il dottore gli dice: “Perché non lo interna?” E quello risponde: “E poi a me le uova chi me le fa?” Be’, credo che corrisponda molto a quello che penso io dei rapporti uomo-donna. E cioè che sono assolutamente irrazionali e pazzi e assurdi e… ma credo che continuino perché la maggior parte di noi ha bisogno di uova.”


Monologo accompagnato dalle note di Seems Like Old Times cantata delicatamente da Diane Keaton e proprio prima che il silenzio dei titoli di coda ci trascini dal sogno alla realtà, l’ultimo suono che possiamo ascoltare è proprio il dolce e caldo “you” della voce di Annie.


Con questo poetico finale, Allen, apre il discorso sulla necessità dell’illusione nell’esistenza della persona e ci ricorda che l’umanità è molto più semplice di quanto pensassero gli antichi, i filosofi o i feticisti della psicanalisi – qual è lo stesso Allen ironizzandolo appunto nei suoi film - e poiché l’essere umano è un animale sociale, accade che il bisogno di vedere al proprio fianco qualcuno diventi imprescindibile e porti all’insensatezza di giudizio nella speranza di vivere insieme qualcosa di straordinario. 




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