Che bel disagio. Foglie al vento, questo il titolo dell’ultimo film del cineasta finlandese Aki Kaurismäki presentato in anteprima al 76° festival di Cannes e candidato a numerosi riconoscimenti, si apre con un “bip”, un suono che fa pensare alle casse dei supermercati, ed ecco sfilare sul nastro una serie di confezioni di carne sottovuoto: ci troviamo effettivamente in un supermercato e tutto scorre normalmente. Vediamo Ansa (interpretata da Alma Kaurismäki Pöysti) rifornire gli scaffali con alcuni prodotti mentre un orco della sicurezza la fissa con insistenza e sguardo a tratti grottesco. Torna a casa, scalda un piatto pronto nel microonde, quando è pronto lo butta nella pattumiera e si siede al tavolo dove accende la radio e ascolta un servizio sulla guerra in Ucraina: ecco che già nei primi minuti del film il tema dell’invasione russa in terra ucraina entra nella narrazione. Tutto sommato, una giornata come le altre. Vediamo poi Holappa (impersonato da Jussi Vatanen) avvolto in una tuta da lavoro, curvo mentre imbraccia l’attrezzatura per pulire il pezzo di ferro ai suoi piedi; si sfila il casco e sotto al cartello “vietato fumare” accende una sigaretta, quando viene raggiunto da un collega e con lui scambia poche battute. Un’altra giornata come le altre. Foglie al vento è la storia di due solitudini che si incontrano ai margini della società. Il film è ambientato in una Helsinki notturna e contemporanea ma al tempo stesso sospesa, grigia e scandita dal ritmo del proletariato urbano: la vita di lei, un passato tragico e un presente precario da commessa in un supermercato, vive in un piccolo appartamento che lascia spazio solo alla disillusione; e la vita di lui, manovale meccanico che vive in un container, una brandina e un armadietto, una dipendenza da alcool e una sigaretta sempre accesa. Ansa e Holappa si cercano ma faticano a trovarsi. La cornice è fatta di eleganza e povertà visiva accentuate da una palette cromatica satura negli interni e dalle luci fioche negli spazi esterni. Dopo oltre trent’anni dalla trilogia del proletariato, Aki Kaurismäki ritorna sul grande schermo con una storia in cui riprende il tema sociale: parla della sua Finlandia con uno sguardo distaccato ma partecipe e quella che vediamo ritratta è una Finlandia contemporanea, fatta di grigiore e chiusure; è una società pronta a licenziare senza tante remore chi preleva un prodotto scaduto da uno scaffale del supermercato come chi si ferisce sul lavoro e viene mandato via con un mero pretesto. Il film è ambientato in un quartiere piuttosto depresso della capitale finlandese, dove la depressione urbana rispecchia quelle relazionale e sociale che mettono a confronto la fragilità interiore dell’uomo con la durezza del mondo attorno, quindi, di essere umano e società in cui vive, in questo caso la società finlandese, caratterizzata da bassa inclusione sociale e una sensibilità quasi nulla (se non annullata). Alla luce di queste considerazioni trovo interessante sottolineare come la fisicità dei comportamenti e dei personaggi – inespressivi, malinconici, che non sorridono mai, goffi, quasi maldestri e freddi, i cui volti non tradiscono emozioni - si intrecci all’analisi della loro interiorità psicologica: dal loro primo incontro nasce in due persone disilluse, fatte di vuoto sociale e vuoto interiore, un desiderio palpabile di essere compresi da qualcuno, soprattutto negli attimi di silenzio. L’unico svago che Holappa e Ansa si concedono nonostante la desolazione è andare al bar karaoke, ed è qui che si incontreranno, fra sguardi timidi, immobilismo e canzoni: la musica infatti è un elemento spesso presente nella costruzione del film se pensiamo non soltanto alla colonna sonora (ma quanto è bella?) ma anche ai momenti di karaoke, come sottofondo nei momenti trascorsi da lui al bar e alla radio di lei. È vero che ci sono pochi dialoghi ma le canzoni aiutano a cristallizzare momenti e significati. Una menzione speciale va alla colonna sonora del film, che poi torna all’interno della storia nella scena con le due ragazze in pigiama e occhiali da sole che al bar karaoke cantano una canzone dal ritmo pop e un’aria apparentemente spensierata e disimpegnata ma che in realtà racconta di una storia di dolore e sofferenza: così facendo, il film si compone di numerosi rimandi non solo musicali ma anche cinematografici e diventa occasione per citare anche il cinema d’autore (Godard, Bresson, Chaplin per nominarne alcuni). Nella costruzione del film anche il silenzio gioca un ruolo essenziale: pochi dialoghi e molti sguardi o, in altre parole, si dicono le cose che si devono dire: piuttosto, è compito di noi spettatori metabolizzare ed elaborare quanto proiettato sullo schermo e farlo nostro e così facendo il regista fa appello alla nostra coscienza individuale che, durante la narrazione, si intreccia alla coscienza collettiva di ognuno di noi: ci basti pensare ai diversi richiami alla guerra esercitati mediante l’espediente del giornale radio, ed ecco che il tema della guerra in Ucraina ritorna sottoforma di cronaca e attualità, una cronaca e attualità che ci coinvolgono anche (e soprattutto) una volta terminata la proiezione, nella vita vera fuori dal cinema. Ecco che dove non parlano i personaggi, si inserisce la radio e nel frattempo la loro vita prosegue invariata ma senza spegnere la radio, a simboleggiare il rifiuto del singolo, seppur insignificante nella dinamica bellica, di rinunciare all’informazione ma nell’assoluta consapevolezza di non poter cambiare lo stato delle cose. Un’altra volta il tema della guerra, Mariupol ed i bombardamenti sui civili in qualche modo, sebbene poco rilevante, però condizionano la vita dei personaggi. Tuttavia, non c’è struggimento politico ma solo un commento fatto di due parole: “maledetta guerra”. E poi c’è il problema dello stile, da sempre centrale nella poetica di Kaurismäki: il realismo delle riprese, l’attenzione alla posizione della cinepresa ed un linguaggio cinematografico essenziale incontrano l’ironia del montaggio in una scrittura consapevole che accosta la vita di tutti i giorni (con i suoi pensieri spicci) alle convinzioni che ci guidano e attraverso le quali leggiamo la vita stessa: così facendo crea una sovrapposizione tra i diversi e molteplici livelli attraverso i quali possiamo leggere la vita di tutti i giorni. Quindi, al realismo delle riprese e all’ironia della scrittura si aggiunge una recitazione che ha dell’assurdo per quanto asciutta e senza fronzoli e così facendo rompe - ancora una volta e consapevolmente - quelle che sono le convenzioni cinematografiche provocando spiazzamento nello spettatore. In altre parole, possiamo dire che l’ironia della scrittura incontra la sofferenza dei protagonisti in uno spazio preciso, uno spiraglio da cui si insinua la brillante visione di Kaurismäki: anche nel dolore si ride. Se dovessi scegliere tre parole che questo film mi fa venire alla mente, direi: vuoto – assurdo – disilluso. Se invece dovessi consigliare una canzone adatta per il ritorno a casa dal cinema, sceglierei Viva del gruppo indie italiano The Zen Circus.
E che bel posto dev’essere in cui vivere, la testa di Kaurismäki.
di Chiara Albertelli