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Finlandia: gli emarginati di Kaurismaki

2024-06-21 12:19

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Cinema Scandinavo,

Finlandia: gli emarginati di Kaurismaki

#CinemaScandinavoContemporaneo

#CinemaScandinavoContemporaneo
di Luca Caltagirone

A partire dagli anni 80’, la Finlandia è diventata una zona cinematografica di interessante sviluppo, ai grandi registi del passato si sono aggiunte nuove personalità che, in un clima di rinnovamento e mutamento, hanno saputo dar vita a produzioni originali che si sono imposte anche sul mercato internazionale.



La rinascita del panorama cinematografico finlandese odierno deve molto all’opera di Aki Kaurismäki che, con una vasta ed eclettica produzione, ha saputo gettare una nuova luce su un paese da troppo tempo sminuito da stereotipi e luoghi comuni.



L’universo umano di Kaurismäki è popolato da reietti, da sfruttati, da esclusi, da tutte quelle vittime di una società cinica e ingiusta. Individui segnati dal dolore che, costantemente in lotta con le avversità della loro grigia esistenza, riescono a trovare dei lampi di luce nel sentimento amoroso, nel sostegno amicale e nella solidarietà reciproca.



Con uno stile asciutto, essenziale e freddo, spesso accompagnato da un alone fiabesco e una sottile venatura ironica, Kaurismäki ci porta all’interno dell’orrore sociale, dell’invivibilità della vita, della desolazione umana.



Straniati e vaganti, i personaggi di Kaurismäki vivono in un mondo astratto e disgregato, dove tutto tende alla rarefazione. Alla ricerca di una propria dignità ed identità, conducono un’esistenza errabonda, aggrappandosi alla propria miseria e alla solidarietà dei propri simili per condividere la disperazione e lo smarrimento, per non soccombere definitivamente.



Si muovono ma restano fermi, immobilizzati e inerti, in una iterazione di spostamenti che, nella loro circolarità, sembrano inutili e vani.



Le trame kaurismakiäne non si basano sulle parole e sulla comunicazione, ma sui silenzi, sulle pause e sulle incertezze. Il mutismo diviene l’emblema del disagio esistenziale dell’individuo ed allegoria del suo rapporto di attrito e smarrimento con la realtà. Ne “La fiammiferaia”, il silenzio avvolge tutte le monotone e quotidiane azioni della protagonista, dalle preparazioni dei fugaci pasti all’alienante lavoro in fabbrica. L’interazione tra i personaggi avviene tramite biglietti e lettere freddamente recapitate a mano o per via postale, mentre i dialoghi sono ridotti al minimo, interrotti da lunghe pause e silenzi interminabili. Ed è nella morsa del silenzio e di una costante mortificazione che la fiammiferaia Iris, divisa tra l’alienante e meccanizzato lavoro e il disumano mondo esterno, conduce la sua tombale e isolata esistenza. In relazione all’ampio uso di silenzi nei suoi film, dice Kaurismäki: “Il cinema è un gioco fra luce e ombra. Il sonoro è un’invenzione successiva che ha solo distrutto una perfetta forma d’arte... Mi piacciono i buoni dialoghi, ma quelli che sapevano scriverli (Zavattini, Ben Hecht, Julius e Philip Epstein, Leigh Brackett...) hanno lasciato da tempo questo mondo”.



Come il linguaggio verbale, anche quello gestuale subisce una compressione: i personaggi sono irrigiditi, simili a manichini privi di ogni individualità e volontà, in corpi apatici e movimenti meccanici e rigidi. La staticità dei corpi e la limitatezza nei movimenti divengono lo specchio dell’inconsistenza della vita, della lontananza dei personaggi dal mondo e della loro incapacità nel conviverci.



Interni o esterni, gli spazi della quotidianità trasudano freddezza e disorientamento e accrescono il distacco dall’ambiente sociale, evidenziando il senso di marginalità e di alienazione dei personaggi. Lo spazio urbano, definito da anonimi, geometrici e grigi edifici, trasmette un asfissiante senso di solitudine, di claustrofobia e di morte. Sono tanti i morti nei film di Kaurismäki: si muore di malattia, per avvelenamento, sotto i colpi d’arma da fuoco, accoltellati o trucidati. Si uccide e ci si uccide, nella amara consapevolezza della vacuità della vita e dell’impossibilità di una vita serena. “Sono un fallito... La vita è solo un illusione” dice il killer assoldato da Henri, malato terminale di cancro, interpretato da un magnifico Jean-Pierre Lèaud in “Ho affittato un killer”, subito prima di uccidere il suo mandante e poi suicidarsi.



L’universo di anime solitarie dei film di Aki Kaurismäki, pur sfuggendo a qualsiasi etichetta nazionale, è profondamente intessuto degli umori e dell’identità storica e geografica finlandese. Per sei mesi immersa nel buio ed esposta a climi che non la rendono particolarmente accogliente, la Finlandia, dominata dall’Unione Sovietica fino al 1917, è uno stato giovane e a bassa densità demografica, ricco di splendidi laghi e panorami suggestivi.



Helsinki è lo scenario privilegiato per molti film del regista: in seguito al processo di modernizzazione e di industrializzazione, la capitale, a partire dagli anni 80’, ha registrato un crescente tasso di disoccupazione. Ed è su questo sfondo di periferie desolanti e grigi fabbriche che si muovono i personaggi di Kaurismäki, schiacciati dal peso di una quotidiana alienazione.



La filmografia di Kaurismäki si può suddividere in tre filoni principali: adattamenti da testi classici, film sulla musica e film sui lavoratori.



Il regista è un lettore vorace e nella sua carriera sono stati molti le trasposizioni cinematografiche di opere letterarie, anche molto ambiziose, come “Delitto e Castigo” di Dostoevskij o l”Amleto” di Shakespeare. Spesso girati in bianco e nero, nei suoi film letterari Kaurismäki inserisce un forte filtro soggettivo, reinventando le storie e aggiungendo anche riflessioni sull’attualità.



Asse portante della sua filmografia è la “trilogia dei lavoratori”, formata da “Ombre in Paradiso”, “Ariel” e “La fiammiferaia”. Qui Kaurismäki racconta di donne e uomini lavoratori (netturbini, operai ecc.) alle prese con un’esistenza monotona e priva di emozioni. Nella trilogia il regista schiera i due attori che più ha a cuore, poi divenuti simboli del suo cinema, Matti Pellonpää



e Kati Outinen.



Ma il mito di Kaurismäki in tutta Europa si è diffuso grazie alla sua collaborazione con i Leningrad Cowboys, una band musicale rock finlandese. Il loro aspetto, una sintesi grottesca tra folklore russo (Leningrad) e iconografia americana (Cowboys), rappresenta l’impossibile conciliazione di due mitologie contrapposte che riescono a convivere solo grazie alla graffiante ironia dei loro spettacoli e dei film a cui partecipano.



Kaurismäki li porta in “Leningrad Cowboys Go America”, nel quale il gruppo musicale compie un catastrofico viaggio verso l’America alla ricerca del successo. Il film di fatto è un riassunto dell’America vista, sognata e amata dagli europei e offre anche una divertita ma interessante riflessione sul conflittuale rapporto dei sovietici col capitalismo d’oltreoceano.



Per finire, vanno obbligatoriamente citati i suoi road movies (“Calamari Union”, “Tatjana”), contrassegnati da un gusto per l’assurdo di straordinaria efficacia e originalità. I personaggi kaurismäkiani cercano di colmare il vuoto esistenziale delle loro vite migrando verso nuovi territori, spesso fallendo perché schiacciati dal peso implacabile del destino.



I desolanti ritratti di vita di Kaurismäki rientrano perfettamente all’interno del comune denominatore ravvisabile nel nuovo cinema finlandese (in registi come Veikko Aaltonen, Ippo Pohjula e Eija Liisa Ahtia, per citarne solo alcuni), ossia quella volontà di rappresentare il senso di smarrimento del presente attraverso un elegante uso di humour nero. I registi finlandesi dunque si interrogano sul presente, sul cosa significa vivere oggi in un paese in trasformazione come la Finlandia e da dove proviene questo costante senso di inquietudine dei suoi abitanti. E così il cinema diventa uno specchio della realtà, una lente di ingrandimento che coglie le lacerazioni di questo paese e, se non riesce a fornire delle risposte, quanto meno contribuisce a porsi delle domande.




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