Demiurgo per eccellenza di un cinema esistenzialista e filosofico, Ingmar Bergman nasce a Uppsala in Svezia il 14 luglio del 1918: in occasione del suo anniversario di nascita ripercorriamo insieme le tappe più significative della strabiliante carriera del genio svedese. L’intenzione è quella di rievocare, attraverso l’analisi di sei capolavori, i principali elementi che compongono e attraversano quel labirinto dell’anima che rivela essere l’opera di uno dei più grandi e rivoluzionari registi del XX secolo. Cercare di articolare e mettere in ordine le tracce di una storia di tale complessità filosofica prima che cinematografica, può risultare difficile, specie se trattiamo di un cinema che mantiene e sviluppa nel suo corso – quarantanove opere in sessant’anni di carriera – un incessante dialogo con temi universali e esistenziali: il tempo, la morte, la verità, Dio, e primo tra tutti, l’essere umano. Dubbi e certezze, luci e ombre, rumore e silenzio: occorre oggi più che mai parlare di Ingmar Bergman e raccontarlo attraverso le immagini che hanno scolpito e plasmato l’immensa storia della cinematografia mondiale.
di Eleonora Verardi
Il settimo sigillo (1957)
Da una dissolvenza in nero, un cielo tempestoso lascia trasparire il volo profetico dell’aquila mentre le parole dell’Apocalisse di Giovanni aprono l’incipit monumentale e apocalittico. Così inizia Il settimo sigillo di Ingmar Bergman, uno dei capisaldi della filmografia del regista, nonché uno dei film più conosciuti e apprezzati dell’intera storia del cinema. Nel film, uscito nel 1957 con un budget bassissimo, il cavaliere Antonius Block incontra la Morte che gli dice che la sua ora è giunta. L’unica ancora di salvezza per Block sarà una famiglia di saltimbanchi, uniti dall’amore reciproco e da un sincero rispetto, che aiuterà il protagonista a ritrovare la fede e l’unione con Dio. La semplicità e la spontaneità della vita dei saltimbanchi aiuteranno Block a superare l’angoscia esistenziale e le inquietudini religiose, giungendo così, per un breve istante, a quella pace interiore di cui era andato, sino a quel momento, vanamente alla ricerca. Block sembra quindi aver compreso il vero senso della vita, cioè il potere della semplicità del quotidiano, delle cose che, anche se apparentemente insignificanti, rendono piena la vita. Sul finale, in una sorta riepilogo di grande regia, il protagonista afferma: «Lo ricorderò, questo momento: il silenzio del crepuscolo, il profumo delle fragole, la ciotola del latte, i vostri volti su cui discende la sera, Mikael che dorme sul carro, Jof e la sua lira... cercherò di ricordarmi quello che abbiamo detto e porterò con me questo ricordo delicatamente, come se fosse una coppa di latte appena munto che non si vuol versare. E sarà per me un conforto, qualcosa in cui credere». Il settimo sigillo è una citazione dell’Apocalisse di Giovanni e si riferisce a un rotolo di papiro chiuso da sette sigilli. Rompere il settimo sigillo significa rispondere alla domanda: «Cosa c’è dopo la morte?». È la domanda esistenziale che l’uomo si pone sin dal principio e della quale è frustrato di non avere una risposta certa. Bergman compreso: «La Morte è un orrore senza soluzione, non perché dia dolore ma perché è piena di brutti sogni da cui non ci può svegliare» (Lanterna Magica, Autobiografia). La pellicola, tratta dalla pièce teatrale Pittura su legno dello stesso Bergman, è una brillante riflessione sulla caducità della vita e sull’ineluttabilità della morte, condotta attraverso visioni simboliche e allegoriche, spesso macabre ma incredibilmente affascinanti, divenute col tempo il marchio di fabbrica del regista svedese. A distanza di pochi mesi, nel dicembre del 1957, Bergman è già pronto per una nuova meditazione sulla vita e sulla morte, un nuovo itinerario spirituale sulla memoria, sul ricordo e sulla nostalgia: Il posto delle fragole.
di Luca Caltagirone
Il posto delle fragole (1957)
Il diciottesimo film di Ingmar Bergman si apre con un monologo al risveglio mattutino del protagonista, l’anziano Isak Borg, ultimamente scosso dai suoi sogni: «I nostri rapporti con il prossimo si limitano, per la maggior parte, al pettegolezzo e a una sterile critica del suo comportamento. Questa constatazione mi ha lentamente portato a isolarmi dalla cosiddetta vita sociale e mondana. Le mie giornate trascorrono in solitudine e senza troppe emozioni...». Il bianco e il nero tinge la stragrande maggior parte dei sogni degli adulti, è il nostro cervello che li colora cromaticamente al risveglio; questo fenomeno accade sempre più frequentemente passando dall’età infantile a quella adulta dato che crescendo si affievoliscono le emozioni pure come la gioia e la paura. Le consapevolezze che si celano dietro la fine dei vent’anni, portano con sé dipinti di pittura vedutista, i quali incorniciano la triste realtà che nutre gli uomini nel coabitare sotto lo stesso cielo, ovvero, l’arrivismo emotivo e pratico, ed essere pronti a tutto pur di realizzare il proprio desiderio egoista, indi per cui, nella maggior parte dei rapporti, eclissiamo l’empatia verso l’altro in virtù del risultato. Ingmar Bergman porta questa filosofia sul grande schermo nel 1957 con Il posto delle fragole, in un bianco e nero fatto di cambi luce accentuati a seconda della vividezza di un ricordo sporco o incontaminato dalle brutalità dell’esistenza. Nella pellicola del cineasta svedese sono impresse quindi tutte le riflessioni sulla natura del sogno e dell’essere umano; in uno dei dialoghi più profondi e iconici nell’immaginario del cinema (storico e mondiale), Marianne ed Evald (figlio e cognata di Isak), affrontano una conversazione privata sul futuro della coppia, facendo emergere un pensiero estremamente pessimista e disumano: «Non esistono il bene e il male, ma solo le necessità, e si vive secondo le proprie esigenze». Bergman qui racchiude tutta la sua filosofia su ciò che si nasconde dietro la coesione fra condivisione e fiducia nell’età adulta... Un pericolo avido. L’ossessione della scoperta è il motore di ogni artista che si pone continuamente le stesse domande nel corso della sua strada, cercando, ogni volta, linfa differente verso risposte inusuali alle precedenti. Ne Il posto delle fragole il cineasta di Uppsala riflette di nuovo sulla morte (elemento assai ricorrente nella sua filmografia) e considera che essa è lo sguardo dell’Io su se stesso. Il vecchio e illustre professor Isak Borg, nel corso di un viaggio in direzione di Lund, dove verrà celebrato alla carriera con un premio accademico, è inseguito, infatti, da domande costanti sulla scomparsa e sui ricordi; invece di annullare il sé, e salvaguardare il momento in cui si consacrerà il proprio giubileo professionale, Borg, raggiunge quelle turbolenze interiori, in cerca di spiegazioni. Il ricordo, il sogno, l’incubo, il quotidiano dialogo che si destreggia tra il formale, il sincero, il rancoroso e il silenzio, tutto è messo sullo stesso livello in questa ricerca dell’essere, in cui la qualunque ha pari dignità; eguale spazio è concesso da Bergman ad ogni elemento, in una varietà di situazioni strutturate con chimica sorprendente, in cui non si avvertono stacchi, passaggi, frammenti: è la ricetta perfetta della vita psichica del personaggio messo in scena, dove, nell’incubo il volto dietro la mano che lo tira all’interno di una bara ha le sue fattezze, nel ricordo, invece, sua cugina Sara tiene davanti a lui uno specchio per mostrargli come è invecchiato:
«Da qualche tempo faccio di continuo dei sogni strani.»
«Ci sarebbe da ridere.»
«Ridere di cosa?»
«Be', è come se volessi dire a me stesso qualcosa che non voglio ascoltare da sveglio.» «E che cosa sarebbe?»
«Che sono morto pur essendo vivo.»
Isak è costretto ad accettare la realtà, il riflesso di sé lo inchioda, il passato è ormai incomprensibile, «non parliamo la stessa lingua» afferma Sara, personificazione della memoria cui era caro ritornare; addormentatosi ritrova le memorie che attraversano una lunga metamorfosi legata, appunto, al duello infinito fra domande e risposte, passando da incubi colmi di tensioni a sogni sereni e nostalgici, cercando i genitori nei tempi in cui era solamente un bambino, dove magari, chissà, adesso parla la loro stessa lingua essendo lui stesso un ricordo... Un’ombra. Bergman con questo capolavoro ci porta ancora una volta nel posto più maestoso e difficile da guardare: noi, di fronte a noi stessi.
di Nicola Bartucca
La fontana della vergine (1960)
La purezza di una fanciulla e la brutalità dell’uomo celati dietro ai simboli di un’acqua purificatrice e di un fuoco luciferino rappresentano e significano molto più di un semplice scontro tra sacro e profano, tra perdono religioso e vendetta pagana.
Nella Svezia medievale in bilico tra cristianesimo e paganesimo la giovane Karin è incaricata di portare le candele alla Chiesa, compito riservato per tradizione alle vergini. Nel viaggio attraverso il bosco è accompagnata da Ingeri, serva pagana, che però l’abbandonerà presto costretta dalla gravidanza, la fanciulla si imbatte in tre briganti (due uomini e un bambino) che la ingannano e successivamente violentano per poi ucciderla a bastonate. I tre assassini si imbatteranno per caso e a loro insaputa nella casa di Tore, padre di Karin, il quale compirà la sua vendetta. La ricerca della ragazza culmina con la nascita di una sorgente ove giaceva il suo corpo.
La fontana della vergine segna un passaggio fondamentale nella carriera di Ingmar Bergman, sia per una definitiva affermazione internazionale raggiunta con il plauso di Cannes e incoronata dal primo dei suoi tre premi Oscar come miglior film straniero, sia soprattutto se considerato come anello di congiunzione (a cavallo tra due decadi) di due fasi della carriera, come sublimazione di un’estetica consolidata e come ripresa tematica ed apertura ad una nuova interrogazione esistenziale. Bergman attinge da una ballata svedese del XIV secolo ed affronta direttamente il problema della religione prefigurando la complessa e problematica analisi che svilupperà nel corso della successiva trilogia sul silenzio di Dio. Un film che in seguito è stato rinnegato dal regista stesso, giudicato “per turisti”, si rivela invece ad un’attenta analisi più ambiguo e meno didascalicamente simbolico di quanto può apparire ad una visione superficiale. Ciò che colpisce di quest’opera è la cupezza mefistofelica, la violenza della storia e l’ansietà degli ambienti, i dialoghi sono ridotti al minimo e domina l’immagine livida e infernale. Tuttavia in netto contrasto con la solitudine ed il pessimismo che permeano tutta l’opera di Bergman ed in particolare la sua concezione religiosa, il film in modo ambiguo e contraddittorio rivela un’apertura verso la speranza o quantomeno al mistero della fede e del sacro che costituisce un nucleo significativo ed un tassello importante nell’analisi della poetica del grande maestro svedese.
di Filippo Bardella
Persona (1966)
Persona sfida le convenzioni narrative e spinge lo spettatore a esplorare i confini tra identità, sanità mentale e comunicazione. Uscito nel 1966, è spesso considerato uno dei lavori più profondi e complessi di Bergman. La pellicola segue la storia di un'attrice di successo, Elisabet Vogler, che improvvisamente smette di parlare e si ritira dalla sua vita pubblica. Viene affidata alle cure dell'infermiera Alma, e insieme si recano in una casa isolata sul mare. Con il progredire della storia, le due donne sviluppano un rapporto intenso e ambiguo, che sfocia in un inquietante scambio di identità e psiche. Il film è ricco di riferimenti psicoanalitici e filosofici, esplorando la fragilità dell'identità umana e il potere distruttivo della comunicazione, o della sua assenza. Le performance di Ullmann e Andersson sono straordinarie, capaci di trasmettere una profondità emotiva e una complessità che contribuiscono a rendere Persona un'opera di grande impatto. I primi piani insistenti sui volti delle protagoniste rivelano una gamma di emozioni sottili e conflittuali, facendo emergere i temi della dualità e della fusione tra il sé e l'altro. Il direttore della fotografia Sven Nykvist utilizza il bianco e nero in modo magistrale, creando un'atmosfera carica di tensione e simbolismo, mentre la colonna sonora minimalista e l'uso del silenzio contribuiscono a rendere l'esperienza visiva ancora più perturbante. Persona non offre risposte facili, ma invita lo spettatore a riflettere sulle questioni più intime dell'esistenza, quali l’identità personale, la comunicazione, il conflitto inevitabile tra l’essere e l’apparire e la condizione femminile in un mondo dominato da aspettative e ruoli imposti.
«Tu vuoi essere, non sembrare di essere. Essere in ogni istante cosciente di te, e vigile. Nello stesso tempo ti rendi conto dell'abisso che separa ciò che sei per gli altri da ciò che sei per te stessa e provoca quasi un senso di vertigine, un timore di essere scoperta, di vederti messa a nudo, smascherata, riportata ai tuoi giusti limiti. Perché ogni parola è menzogna, ogni gesto falsità, ogni sorriso una smorfia».
di Chiara Bosin
Sussurri e grida (1972)
Lo schermo si tinge di rosso carminio, in sottofondo echeggia il rintocco delle lancette di un antico orologio ornamentale. Una melodia angosciante, persistente e incessante, eternamente uguale a sé stessa, che porta in grembo il peso di una sentenza. Non è possibile sottrarsi al proprio destino, soprattutto quando questo va incontro alla morte. «Tutti i miei film possono essere pensati in bianco e nero, eccetto Sussurri e grida. [...] Ho sempre immaginato il rosso come l'interno dell'anima» (Ingmar Bergman). Una flebile voce femminile annuncia che è lunedì mattina, e che sta soffrendo. Agnese (Harriet Andersson), la minore delle tre sorelle che abitano la sontuosa villa immersa nel verde della campagna svedese, è affetta da un male incurabile ed è prossima a varcare il confine che separa il mondo dei vivi da quello dei morti. In attesa che si compia la tragica e prematura dipartita, le maggiori – Karin (Ingrid Thulin) e Maria (Liv Ullmann) – sono tornate nella casa d'infanzia per assisterla con i rispettivi mariti. L'unica che però sembra realmente mossa da un affetto sincero e disinteressato nei confronti della giovane donna è Anna, leale e devota inserviente della famiglia.
Sussurri e grida è un'opera che vibra di tormento e di contrasti cromatici, temporali e umani. Rossi i vestiti, la stanza, il vino e il sangue; l'anima, l'amore, la violenza e la carne. Bianche le vestaglie da notte, le lenzuola, la fronte madida di sudore e le rose del giardino; la fede, la pietà, l'innocenza e la memoria. Quadri che si alternano in un continuo susseguirsi tra presente e passato, ricordo personale e familiare. Un dramma borghese tutto al femminile che muove il suo respiro in ambienti chiusi e dall'aria consumata, svelando con poetica spietatezza ossessioni, passioni e segreti; e, in particolar modo, rivelando la macabra freddezza e la banale indifferenza di una classe sociale che ha fondato la propria misera esistenza sulla base di un instabile gioco di apparenze. «Il tempo è temibile non tanto perché uccide, quanto perché smaschera» (Nicolás Gómez Dávila). Una sofisticata sfumatura di crudeltà che caratterizza il teatro di August Strindberg e in particolare Il pellicano (1907): «Mi colpiva il tono delle parole, gli attacchi. Tutta quella violenta aggressività era qualcosa in cui mi identificavo» (Ingmar Bergman). Le consapevolezze ultime sono composte da sussurri e grida: i primi ci obbligano alla vicinanza, all'ascolto dell'altro e alla vulnerabilità; le seconde straziano il corpo, ci allontanano, implorano di renderci immuni al dolore. «Per tutta la vita la morte è stata una presenza per me, fin da bambino. [...] E adesso... è diventata una realtà» (Ingmar Bergman). L'uomo ha perso la partita a scacchi contro la Morte.
di Ilaria Delmonaco
Autumn Sonata (1978)
Del 1978, Autumn Sonata, ultimo film per il cinema del regista, rappresenta l’unica collaborazione tra Ingmar Bergman e l’iconica attrice Ingrid Bergman, qui al suo ultimo film, in tandem con la storica musa del cineasta svedese, Liv Ullmann. Un incontro, questo tra le due attrici, che, in maniera quasi speculare a ciò che viene raccontato nel film, mette a confronto due mondi, quello della recitazione più hollywoodiana di Ingrid Bergman, e quello della recitazione più europea di Liv Ullmann. Autumn Sonata è una straordinaria prova di eleganza formale e contenutistica, impreziosita dalle interpretazioni delle due attrici protagoniste; la storia è tratta da un testo teatrale dello stesso Ingmar e vede l’incontro, dopo diversi anni, tra Eva (Liv Ullmann) e sua madre Charlotte (Ingrid Bergman), una famosa pianista. L’impianto teatrale del soggetto permea l’intero film che si risolve principalmente in uno spazio chiuso, la casa di Eva, luogo che diventa la cornice in cui i dissapori repressi tra madre e figlia vengono esposti in maniera progressiva e vertiginosa.
Un estratto della Treccani, nel definire la sonata in musica, recita così: «Nel Settecento si affermò come composizione per strumento [...] per fissarsi infine, nel periodo classico alla fine di quel secolo, nella tipologia di composizione scritta per un solo strumento (pianoforte) o al massimo due (generalmente strumento ad arco e pianoforte)». Una definizione che esplica anche come mai sia preferibile utilizzare un titolo che adoperi il termine sonata piuttosto che quello di sinfonia, come accade nella versione italiana, proprio perché è questo il film di Bergman, un concerto da camera in cui due solisti suonano in maniera alterna il proprio brano, in un continuo botta e risposta che complessivamente restituisce l’immagine di una magistrale indagine psicologica. Madre e figlia sono due facce della stessa medaglia, hanno credenze opposte, vivono in maniera differente, eppure ognuna ha qualcosa da recriminare alla sua metà. Sulla musica suonata da Eva e Charlotte danza l’ambiguità del legame familiare, magistralmente raccontato da Bergman, attraverso l’intersezione, il mescolamento e la coesistenza di amore e odio, ammirazione e disprezzo.
di Joaldo N’Kombo