di Luca Caltagirone Così Alberto Moravia, in una sua recensione del 3 marzo 1963, descriveva “La ricotta” di Pier Paolo Pasolini, l’episodio più intenso e drammatico del film collettivo “Rogopag”. In occasione dell’anniversario di morte di Pier Paolo Pasolini, uno dei massimi scrittori e registi del panorama culturale italiano, l’articolo di oggi rievocherà le memorie del mediometraggio “La Ricotta”, partendo dalla storia produttiva e dal processo per vilipendio della religione, per arrivare ad un interpretazione dei significati più profondi e reconditi del film. Prodotto da Alfredo Bini, “Rogopag” è la sigla dei quattro registi autori dei quattro episodi del film: Rossellini, Godard, Pasolini e Gregoretti. “4 racconti di 4 autori”, così Bini avanzava la sua strategia promozionale del film, sostenendo l’unità e la coerenza interna di “Rogopag”: «il filo conduttore del film è costituito dai diversi aspetti di uno stesso fenomeno, il condizionamento dell’uomo nel mondo moderno». D’altra parte è pur vero che i registi hanno lavorato autonomamente, senza contatti o coordinamento alcuno. Addirittura Pasolini in un’intervista afferma: «Ho girato su un copione già scritto, da cui volevo ricavare un film già prima che Bini mi chiedesse di partecipare a Rogopag. Ho girato questo film senza avere il minimo rapporto con gli autori degli altri sketches». Dunque forse sarebbe più corretto parlare de “La ricotta” come un’opera a sè stante, un film autonomo che, come afferma Marco Rossitti, «per compiutezza e innovazione stacca di molte lunghezze il lavoro dei colleghi... Tanto da arrivare a un assetto storiografico decisamente anomalo, secondo il quale “La ricotta” non è un episodio di “Rogopag" bensì “Rogopag” è il film a episodi che contiene “La ricotta”» . Prima ancora che il film sia uscito nelle sale, la magistratura dà avvio a un indagine per vilipendio alla religione di Stato, per il quale Pasolini fu successivamente condannato, in prima istanza, a quattro mesi di reclusione. L’indagine viene affidata a Giuseppe Di Gennaro, giovane magistrato che riuscì a dimostrare, analizzando e destrutturando il testo, la presenza di una religiosità inquieta e oltraggiosa e la volontà di Pasolini di “deridere e schernire la religione cattolica”, oltre che “la gratuita messa in ridicolo di simboli e di soggetti sacri”. Alfredo Bini cerca in tutti i modi di salvare la pellicola, manda numerose lettere al Tribunale con la richiesta di “dissequestro parziale” del film, con la promessa di tagli e modifiche delle parti ritenute vilipendiose. Dopo più di sei mesi, il 12 novembre 1963, viene accolta l’ennesima richiesta di revisione e il film torna nelle sale con il nuovo titolo “Laviamoci il cervello”. La trama è arcinota: in una zona periferica di Roma si gira un film sulla vita di Gesù. Mentre il regista impartisce gli ordini per le riprese, una giovane comparsa cerca disperatamente di sfamarsi tra una pausa e l’altra. Dopo essersi ingozzato di ricotta, muore di indigestione sulla croce durante le riprese. Il film si basa sull’opposizione e la distanza dei due coprotagonisti, il rozzo e proletario Stracci, interpretato dal non professionista Mario Cipriani e il personaggio del regista-intellettuale (di cui non viene fatto nome), interpretato dal celeberrimo Orson Welles. Se Stracci cattura subito la simpatia dello spettatore, il personaggio del regista risulta più ambiguo e contraddittorio. Di fatti quest’ultimo non è altro che la proiezione di Pasolini, il suo alter-ego: si definisce marxista ma dichiara il suo “profondo intimo arcaico cattolicesimo”; inveisce contro “il popolo più analfabeta e la borghesia più ignorante d’Europa”; legge una poesia tratta dall’ultimo libro di Pasolini e infine inveisce contro “l’uomo medio” e i processi di massificazione. Stracci è invece un personaggio per certi versi “bestiale”, considerato l’ultimo degli ultimi, viene costantemente deriso dalla troupe. Come spiega Adelio Ferreri, «l’autenticità di Stracci si risolve integralmente nell’estrema precarietà di un’esistenza ferocemente condizionata dal bisogno, estremizzato nella sua forma più cruda e diretta: la fame». Sul finale, Pasolini innalza Stracci a figura cristologica che trova nella morte il mezzo per affermare la propria identità ed esistenza. Si tratta del motivo prettamente pasoliniano della “sacralizzazione del sottoproletariato”. I due personaggi, apparentemente opposti, sono riavvicinati dal rapporto stretto con Pasolini: emerge in entrambi una vicinanza del regista che li pone sotto una luce carica d’affetto. Dice Pasolini: «Da una parte il sottoproletario Stracci, dall’altra l’intellettuale Orson Welles: sono questi i personaggi che più atterriscono la piccola borghesia, perché sfuggono totalmente, -l’uno verso il basso, l’altro verso l’alto-, al suo misero dominio culturale della realtà». Dunque i due personaggi sono accomunati dal loro opporsi alla dittatura della piccola borghesia, alla mostruosità del dominio omologante dei mass media. Altro tema fondamentale del film, nonché motivo della condanna per vilipendio, è quello della profanazione dei simboli tradizionali della religione cristiana. La corona di spine di Cristo, richiesta dal regista, viene degradata e sbeffeggiata da un gruppo di servi, dissacrandone la valenza sacra. Oppure quando gli attori, immobili, riproducono “La Deposizione” di Rosso Fiorentino e, a un certo punto, l’interprete di Cristo scoppia a ridere determinando l’interruzione delle riprese. Ma Pasolini, nel sconsacrare vecchi simboli, ne sacralizza dei nuovi. Quando la famiglia di Stracci si divide il cestino del pranzo, risuona una musica sacra che epicizza il mondo del sottoproletariato. Oppure, banalmente, nella sequenza finale della morte di Stracci sulla croce: dopo che il protagonista ha già esalato il suo ultimo respiro, seguono alcune soggettive dal suo punto di vista, a rimarcare il fatto che Stracci è ancora presente, ha compiuto la sua rivoluzione e ha definitivamente preso il posto dell’archetipo mitico dal quale deriva. Tanti altri sono gli spunti che lascia “La ricotta” di Pasolini, come la questione figurativa relativa ai tableau vivant o il rapporto con “81⁄2” di Fellini, uscito nelle sale nello stesso anno e con il quale condivide l’idea di “film nel film”. L’invito è ovviamente quello di vedere o rivedere questo capolavoro di Pier Paolo Pasolini, divenuto col tempo uno dei film di argomento “religioso” più conosciuti e apprezzati della storia del cinema.
«Dobbiamo premettere che un solo giudizio si attagli a quest'episodio: geniale!. Non vogliamo dire con questo che sia perfetto o che sia bellissimo; ma vi si riscontrano i caratteri della genialità, ossia una certa qualità di vitalità al tempo stesso sorprendente e profonda. L'episodio di Pasolini ha la complessità, nervosità, ricchezza di toni e varietà di livelli delle sue poesie; si potrebbe anzi definire un piccolo poema di immagini cinematografiche. Da notarsi l'uso nuovo ed attraente del colore e del bianco nero. Orson Welles, nella parte del regista straniero che si lascia intervistare, ha creato con maestria un personaggio indimenticabile»
La storia produttiva
Il processo
La trama
I personaggi
La profanazione del sacro e la sacralizzazione del profano