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«I knew these people», 40 anni di Paris Texas

2024-12-10 12:50

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«I knew these people», 40 anni di Paris Texas

di Joaldo N’Kombo

Periodicamente si presentano quei momenti in cui arriva la necessità di tirare le somme, di fermarsi un attimo e guardarsi intorno, anche semplicemente per constatare in quali coordinate spazio-temporali ci si trova. Sono momenti che diventano obbligatori quando si è testimoni di grandi eventi, di occasioni memorabili o di anniversari di un’importanza storica. Ebbene, il 2024 è quasi finito, guardiamoci intorno: ‘Paris, Texas’ ha appena compiuto 40 anni.



Il film di Wim Wenders è uno di quegli esempi che mostra come il cinema sia capace di iconizzarsi, di uscire dallo schermo e diventare qualcosa di grande; un’immagine infinita -quella del deserto- che riflette sé stessa, il mondo, la società e il singolo individuo. Una storia, quella del protagonista Travis, che è precisa e personale, eppure che si lascia prendere e vivere con trasporto e semplicità raggiungendo uno stato universale. Un’odissea mitica e moderna costruita dal regista Wim Wenders, lo sceneggiatore Sam Shepard, il direttore della fotografia Robby Müller e gli attori Dean Stockwell, Hunter Carson, Nastassja Kinski e Harry Dean Stanton.



Un film che, con la sua recente ridistribuzione nelle sale, ha riportato sullo schermo le immagini di un’America a pezzi, desolata e malinconica: è passata l’età dell’oro, del grande West. Ne rimangono solo gli echi e, con questi, restano i ricordi delle promesse legate a quel sogno americano rincorso da chiunque, in primis da Wenders stesso. Un sogno tanto fasullo quanto bello che il regista tedesco ha sempre voluto attraversare. Con ‘Paris, Texas’, finalmente, ci riesce. Ma Wenders è conscio di star rincorrendo un sogno che non esiste - che addirittura forse non è mai esistito- e proprio per tale ragione il suo è un film pregno di sincerità che, nonostante tutto, cerca di venire a patti con tale condizione attraverso un percorso di guarigione. Travis è infatti un protagonista che deve ricominciare da capo, che parte da una condizione di totale solitudine, vagabondaggio e mutismo. È un protagonista che comincia il suo viaggio già sconfitto ma che riesce progressivamente a risollevarsi, a raccogliere i pezzi della sua persona e del mondo che gli sta intorno. Il Travis di Harry Dean Stanton sembra essere un figlio simbolico di quel folle sfogo finale presente nel celebre romanzo di Nathanael West ‘Il giorno della locusta’, uno sfogo che vede le vittime dell’american dream impazzire di rabbia perché quel sogno ha portato loro via tutto. Eppure, l’America è comunque bella. È bella perchè ci sono i campi lunghi di Wenders; i colori di Robby Müller; le musiche di Ry Cooder; l’iconico jumper di Jane/Nastassja Kinski; i filmini in super 8; perché ci sono padri, madri, figli, fratelli e amanti che riallacciano i legami fra di loro; è bella perché è nostalgica e romantica; è bella perché nonostante tutto è la terra dove si ha sognato più che in qualsiasi altra parte del mondo.



Roger Ebert, che è stato uno dei più rilevanti critici cinematografici esistenti, ha utilizzato queste parole per descrivere il film: «Wenders uses the materials of realism but this is a fable [...] It's about archetypal longings, set in American myth». Una favola, quindi, sui desideri archetipici. Ed è nel finale, in uno dei monologhi più iconici della storia del cinema, che Sam Shepard porta Travis/Harry Dean Stanton a raccontare di questi desideri, partendo proprio dall’archè, dal sogno originario che è stata la storia sua e di Jane/Nastassja Kinski: «I knew these people [...] They were in love with each other. The girl was very young. About seventeen or eighteen, I guess. And the guy was quite a bit older. He was kind of raggedly and wild. And she was very beautiful. You know?».



A 40 anni dalla sua uscita, la conclusione è che forse ‘Paris Texas’, per come riesce a parlare di solitudine e sogni infranti, è un film che più invecchia e più diventa attuale, confermandosi allo stesso tempo come un dolce palliativo alla violenta modernità odierna.




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