di Luca Caltagirone In occasione dell’anniversario di morte di Andy Warhol, artista e intellettuale simbolo della Pop Art statunitense, ricordiamo il grande artista concentrandoci sul suo cinema muto dei primi anni 60’ (“Sleep”, “Eat” ecc), che comprende una serie di film girati all’interno della Silver Factory e basati su «un processo di replicazione dell’oggetto statico» e di «simulazione spazio- temporale del reale»1. Intellettuale che ha agito in toto nell’arte visiva (pittura, fotografia, pubblicità ecc), nel 63’ Warhol dirige il suo primo film “Sleep”, seguito da tanti altri (“Blow Job”, “Haircut”, “Eat”), quasi tutti girati con una cinepresa 16 mm e quasi sempre con gli stessi attori, ossia le varie personalità legate alla Silver Factory, il suo enorme studio argenteo all’interno del quale erano create le sue opere con l’aiuto di una squadra di collaboratori, oltre che fungere da punto di ritrovo per feste all’avanguardia di artisti underground. Nella maggior parte dei film di questo periodo, gli ospiti in scena compiono azioni quotidiane, normalissime, quasi dimenticandosi di essere ripresi, come avviene per esempio in “Sleep” nel quale un uomo (John Giorno, un poeta statunitense) viene ripreso mentre dorme per più di cinque ore, oppure in “Eat” dove Robert Indiana, l’altro esponente della Pop Art statunitense, viene ripreso mentre mangia per quarantacinque minuti. Facendo largo uso del piano- sequenza e di una logica seriale (ripetizione della stessa scena prolungata nel tempo), in linea con la poetica della Pop Art di riproduzione seriale della quotidianità anche nei suoi aspetti più banali e comuni, «la sensazione che se ne ricava è quella dell’assoluta immobilità, dell’abolizione del tempo, come se ci trovassimo alla presenza di un tempo realmente vettoriale, e contemporaneamente, all’abolizione di questa vettorialità»2. La prof.ssa Teresa Macrì, all’interno del suo studio sul cinema underground «Cinemacchine del desiderio», descrive analiticamente la reazione dello spettatore di fronte il cinema warholiano: «In questa completa assenza di narrazione, di mobilità scenica, come in “Sleep”, ma quasi in tutti i suoi numerosi film, l’attenzione dello spettatore è concentrata su ogni possibile variazione e ciò che spinge la visione estenuata è l’attesa per l’accadimento, che verrà puntualmente frustrata. In realtà lo spettatore warholiano è frustrato, spossato, estenuato, mai appagato dalla riduzione di accadimento filmico. È dunque uno spettatore masochista che si presta alle sue stesse mortificazioni pulsionali»3. Un cinema dunque che lascia lo spettatore nauseato, inquieto, mortificato, ma che può dar «piacere a chi vive una forma insieme intellettuale e irrituale del percepire»4. Sono i noti i casi i di spettatori che, nauseati e spinti ai limiti della sopportazione, hanno lasciato la sala prima della fine del film (durante “Sleep”, delle nove persone presenti alla prima, due se ne sono andate durante la prima ora di proiezione). Warhol riporta il cinema alle sue origini, al muto “primitivo” dei fratelli Lumière, quando i film non erano ancora assoggettati dal principio narrativo e rispondevano alla sola funzione documentaria “mostrativa-attrazionale”. In una celebre intervista, Warhol afferma: «Ho fatto i miei primi film con un solo attore che faceva la stessa cosa sullo schermo per diverse ore: mangiare, dormire o fumare. [...] Si tratta di film sperimentali; li chiamo così perché non so quello che faccio. Mi interessano le reazioni del pubblico ai miei film: essi saranno adesso degli esperimenti, in un certo senso, per saggiarne le reazioni»5. Ne consegue un cinema autentico e spontaneo, nato dalla semplice volontà di giocare con la cinepresa e filmare liberamente l’azione senza interferire su essa, «riportando l’attenzione sull’oggetto in sé nella sua impercettibile variazione temporale in un processo di autoanullamento costante»6. Con la sua tecnica di ripetitività del gesto e di oggettivazione del reale, capace di catturare la curiosità voyeuristica dello spettatore e riportare il cinema alla sua dimensione rituale e artistica, il cinema di Andy Warhol resta un caso unico e originale nel panorama cinematografico internazionale, divenendo un punto di riferimento per la pratica cinematografica sperimentale e avanguardistica. 1,3,6-«Cinemacchine del desiderio», Teresa Macrì, 1998 2-«Il cinema di Andy Warhol», Andriano Aprà e Enzo Ungari, 1978 4-«Andy Warhol. Il cinema della vana vita», Mirco Melanco, 2006 5-Intervista ad Andy Warhol tratta da Gretchen Berg, «Andy: My True Story», in «Los Angeles Free Press», 17 marzo 1967
Note: