Attraversare la vulnerabilità nella società del non-legarsi Uno spaccato emozionale, impacciato, titubante, in cui i protagonisti come funamboli oscillano tra il lasciarsi andare e il trattenersi, l’aversi per sé che più di un’esigenza sembra essere diventato un comune e condiviso modo di vivere per limitare rischi e ferite, per cui non si ha più spazio, uno spazio ormai occupato dalla paura dell’incertezza, del non poter “far andare tutto nel verso giusto.” Il film di Paolo Genovese affronta con una sottile e a volte cinica comicità temi fondanti della società contemporanea, racchiudendo così desideri e volontà nascoste, frasi audaci che vengono sussurrate, per mancanza di coraggio, per non perdere la rotta e continuare imperterriti a dimostrarsi fermi e con intransigenza non concedersi all’emozionalità. È una storia che si articola a partire da due menti in cui è concesso anche l’impossibile, perché “qui dentro possiamo essere orrendi”; come se l’invisibile agli occhi esterni non contasse e non avesse davvero un riscontro su quell’esterno, senza timore di esplorare i più insensati ragionamenti, terrorizzati invece di scoprirne i significati più innocenti, per fare ritorno a quel “tiepido conforto uterino” che nonostante tutto ancora oggi custodisce la vera realtà, i codici di un’identità scevra di ogni altro fattore inquinante. In queste stesse menti tuttavia abitano più voci che, accalcandosi, rendono affollate le stanze di un appartamento apparentemente semivuoto, in cui provare a camminare, sostare, soffermarsi per cercare di comprendere l’intricata materia emotiva che rende umani e vivi, dalla quale però sembra consueto dover fuggire, preferendo l’asettico non-attaccamento a un corpo, a una persona, ai loro correlati contesti. Due vite distanti e vicinissime, le emozioni trattate restituiscono un caleidoscopio di pensieri che si rincorrono ansimando, cercando di sovrastarsi affannosamente in un labirinto in cui orientarsi risulta più complesso del previsto, soprattutto se a provarci sono gli adulti. Un momento di debolezza, su un confortevole eppure scomodissimo divano, vede i personaggi leggersi reciprocamente le cicatrici sulla pelle per tentare di mappare il tracciato di un passato sconosciuto, in cui entrare in punta di piedi, facendo prima rigorosamente un passo indietro. Quello messo in scena è un appuntamento, ma più in avanti diventa un teatro di sbagli e inciampi, un’ammissione timida e forse involontaria, ma inevitabile, di tremori ed esitazioni che fanno sorridere perché veri, sfuggenti al controllo di qualcosa che controllato o ragionato non dovrebbe mai essere. È così che accettare un invito a cena a casa di una sconosciuta, in una qualsiasi e anonima serata romana, inscena un tentativo di sconfitta di quel Super Io Sabotatore che trattiene e fa sentire invincibili, oppure magari solo estremamente fragili.
di Lucrezia Bazzolo
- Siamo stati bene
- E perché ve ne siete andati?
- Perché siamo stati bene