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Il cinema di Sean Baker

2025-03-28 00:10

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Il cinema di Sean Baker

di Luca Origo


Negli ultimi 10 anni il cinema indipendente si è ritagliato uno spazio sempre maggiore nella corsa ai premi Oscar, anche a quello più importante relativo alla produzione del “miglior film”. Quest’anno la scena è stata rubata da Sean Baker (nato a Summit, New Jersey, nel 1971) che, arrivato con Anora al suo ottavo lungometraggio, è stato premiato per tutti gli aspetti da lui curati: sceneggiatura, regia, montaggio e, per l’appunto, produzione. Grazie a questa vittoria, anticipata allo scorso Festival di Cannes, il cinema di Baker ha raggiunto quel riconoscimento internazionale, e per così dire “mainstream”, che ancora gli mancava. 


Il concetto di “cinema indipendente” è ben radicato in un’industria cinematografica, quella statunitense, in cui i grandi studios hanno sempre monopolizzato opinione pubblica e incassi. Tante scelte stilistiche che finiscono per caratterizzare le produzioni indipendenti sono conseguenza del loro principale svantaggio, ovvero il budget ridotto.


Nel caso di Baker, ogni suo film nasce dalla volontà di raccontare una comunità sotto-rappresentata e collocata ai margini della società statunitense. Tutto ha inizio con la scoperta di una location, delle persone che la vivono e infine dei loro problemi reali. 


Le location di Baker sono perfette per descrivere il disagio delle minoranze e l’indifferenza dei privilegiati. È questo il caso di The Florida Project (2017) dove le protagoniste vivono in un motel alle porte di Disney World, poco fuori Orlando. Rapportandosi quotidianamente con le famiglie di turisti in pellegrinaggio verso il parco divertimenti, madre e figlia cercano di guadagnarsi da vivere come riescono. La determinazione con cui Halley e la piccola Moonee costruiscono piccole isole di dolcezza immerse nel nulla più totale, vale tutto il film. 


Esplorando in prima persona questi microcosmi, Baker e i suoi collaboratori cercano di ascoltare ogni storia che gli viene donata. Lasciare che siano le stesse persone del luogo ad interpretare i suoi personaggi, dettando la sceneggiatura e stabilendo tono e linguaggio del film, è l’unica via possibile per un cinema autentico. Nella realizzazione di Tangerine (2015), interamente girato con alcuni iPhone nel quartiere di Hollywood, Baker è stato introdotto alla vita delle sex worker transgender della zona da Mya Taylor, conosciuta all’LGBT Center di Los Angeles e divenuta poi attrice protagonista assieme all’amica Kitana Rodriguez. 


I personaggi dei film di Baker sono sempre intrappolati nell’economia underground del loro quartiere. Una qualsiasi altra possibilità gli è preclusa e poco spazio è lasciato a sogni o speranze di cambiamento. Nel suo penultimo lungometraggio, Red Rocket (2021), il protagonista è un attore porno ormai dimenticato che cerca di riambientarsi nel suo paese natale. Mikey, interpretato da Simon Rex, deve fare i conti con un contesto socio-culturale, quello di Texas City, per niente progressista o tollerante e che cercherà in tutti i modi di ostacolarlo.


Anche senza andare in profondità, tutti i film citati, che sono molto ricchi e ricalcano solo la sua filmografia più recente, ci aiutano a tratteggiare i saldi principi del cinema di Sean Baker. Un cinema che attinge dalla realtà, consapevole che ogni essere umano vada sempre ascoltato e letto rispetto al proprio contesto di provenienza. Un cinema che, in conclusione,  sa anche intrattenere sondando nella sua totalità lo spettro delle emozioni umane, ricercando una leggerezza e una tenerezza che allontanano il nostro istinto giudicante.



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