di Luca Cannuci Da poco è stato incluso con l’abbonamento ad Amazon Prime il terzo film di Alex Garland: Men. L’ho rivisto e credo sia utile parlarne per comprendere la sua importanza non solo nella rivoluzione del genere horror, ma altresì nel panorama cinematografico in generale. Men di Alex Garland (Ex Machina, Annientamento e Civil War) è un film sul trauma, questo è chiaro ed evidente. Sulla scia di pellicole horror quali Babadook di Jennifer Kent e Madre di Aronofsky oltre al nuovissimo e terrificante The Substance della regista francese Coralie Fargeat, il terzo lungometraggio del regista, sceneggiatore e scrittore britannico costituisce un tassello fondamentale per la reinterpretazione del genere. Sullo sfondo c’è un paesino di campagna, tipicamente inglese e rurale, una realtà chabroliana (Il tagliagole, Stéphane, una moglie infedele e lo splendido L’inferno) scevra dai suoi intrighi e vicende franco-borghesi degli anni ‘70. Il motivo di questo contesto è un viaggio, una vacanza che una giovane donna si è data per sfuggire alla grigia e caotica Londra, oltre che, e soprattutto, al suicidio del proprio marito James (a cui lei ha assistito) a seguito della sua volontà di divorzio. La protagonista (Harper Marlowe), interpretata da Jessie Bucleydecide quindi di riposare per due settimane in una splendida villa di campagna, fra passeggiate nel bosco e contemplazione della natura al suo stato brado, lontano dalla frenesia della metropoli. Il suo trauma però non l’abbandonerà mai, sin dall’inizio vediamo infatti come questo si annidi nei suoi ricordi, trasformando il quotidiano in un’eterna reviviscenza del terribile accaduto. Il senso di colpa è immenso, Harper non si dà mai pace, nemmeno quando arriva nella villa in cui soggiornerà, accolta cordialmente e in maniera bizzarra dal padrone di casa Geoffrey, interpretato magnificamente da Rory Kinnear, il quale le illustra ogni stanza della residenza, dandole anche alcune informazioni sul paesino e riguardo un piccolo pub che può trovare se ha voglia di ristoro: “10 minuti per andare, 40 per tornare”. La casa è enorme, avvolta da un piacevole silenzio (il sonoro qui gioca un ruolo fondamentale) e qui la donna ha la possibilità di curare la propria ferita immersa nella piacevole solitudine. Le cose però cominciano ad apparire strane quasi da subito, quando la giovane donna, mentre è in videochiamata con la sua amica-terapeuta Riley (Gayle Rankin), ha difficoltà a collegarsi alla rete internet e mentre le due parlano, la chiamata ad un certo punto inizia a laggare, mostrando ad Harper frame istantanei e fuggevoli di figure tormentate. Ciò che porta la storia in una direzione inaspettata e perversa è però un’altra: la camminata nel bosco di Harper, la prima mattina del suo soggiorno. Durante la passeggiata, la giovane donna si imbatte in una rotaia ormai dismessa e nel seguirla giunge a una galleria dove, a seguito di alcuni suoi gemiti liberatori compiuti per apprezzarne l’insolito riverbero, risveglia quello che sembra, nella lontananza dell’estremo opposto del traforo, un uomo la cui siluette inizia a correre verso di lei nella controluce del tunnel. La donna si spaventa e scappa, per poi perdere il sentiero e ritrovarlo dopo che, seguendo le rotaie arriva in un punto cieco. Harper, una volta uscita dal bosco, camminando sul prato per rientrare a casa si volta da dove era venuta e scorge una figura maschile, completamente nuda, inquietante e spiacevole, immobile e intenta a fissarla per poi ricominciare a seguirla. Rientrata in casa quella figura continua incessante a pedinarla: l’uomo la guarda, quasi ammirandola e contemplandola e dopo aver cercato di entrare senza successo nella residenza, Harper riesce a chiamare la polizia per farlo arrestare. Questo è l’incipit, l’inizio della storia, eppure ciò che avverrà di lì a poco sarà molto peggio e decisamente più oscuro. Garland non perde tempo, annienta completamente i codici del genere per ricostruirli in funzione dell’esigenza della storia. Non aspetteremo molto perché l’inizio dell’incubo ci venga mostrato. Diversamente dall’horror classico, Garland, così come i colleghi Ari Aster, Jordan Peele e Robert Eggers (il più canonico dei quattro), non si concentra sull’archetipo del mostro in sé, il quale storicamente è esterno al soggetto della storia (rappresentazione socioculturale), al contrario, il mostro qui diventa predicato del soggetto, una rappresentazione del suo trauma e il simulacro delle sue paure individuali e delle conseguenze delle sue azioni e comportamenti. Vi si aggiunge un nuovo tipo di orrore, quello della psiche, senza però tralasciare la visione sociale del mostro, che in Men è operata dalla stessa protagonista, la quale appone il volto del primo uomo conosciuto in paese (il cortese e campagnolo oste Geoffrey) ad ogni figura maschile incontrata per tutto il susseguirsi della vicenda: l’uomo nudo, il poliziotto, il prete, il bambino, il barista e i due commensali. Come dicevo, per allargare i confini ed espandere la rielaborazione del ragionamento sulla teoria del “soggetto-predicato”, possiamo dire che: la rappresentazione del “mostro”, quindi della componente prettamente estetica dell’oggetto orrorifico, qui si mantiene intatta poiché essa rimanda ad una categoria deviante della società che per l’appunto è il contesto, quel sottofondo spregevole e oscuro che imposta il registro del film. Questo tipo di rappresentazione è detta sociale poiché condivisa nella memoria e nella conoscenza esperienziale degli individui e spettatori, i quali si fanno carico del malessere riportato e ne comprendono chiaramente le regole estetiche, linguistiche e culturali che vengono esposte. In un secondo momento, questo contesto rappresentativo (l’oggetto dell’orrore) si trasmuta in un predicato, ovvero un tipo di azione o comportamento adottato dal soggetto (tendenzialmente il protagonista) che esprime in questi termini il suo personale e individuale malessere. Ecco allora che l’oggetto diviene predicato del soggetto, un atto estremo volto alla rielaborazione e al superamento (in certi casi) del trauma esposto nell’incipit. Men è costruito così: esso è l’esegesi del trauma, la sua storia e la sua fine (il sorriso di Harper quando vede la sua amica al termine della storia), il suo superamento presupposto dallo scontro del soggetto con il suo stato e il suo trauma. In sostanza, se prima il soggetto era sottoposto all’azione (il predicato) dell’oggetto (“il mostro”), divenendo così oggettificato, adesso i ruoli si sono ribaltati, arrivando a proporre un soggetto che è oggetto del suo stesso predicato, delle sue medesime azioni e di tutte le conseguenze che queste rimandano. Trattando ora gli elementi simbolici del film possiamo dire come la mela mangiata da Harper prima di incontrare Geoffrey sia la mela del peccato, che riporta la protagonista dall’eden al mondo terreno, quello della sofferenza e della morte di suo marito James.L’elemento più complesso ed evocativo però rimane l’acquasantiera di pietra in cui sono iscritti due disegni ai lati opposti: una donna e un uomo. L’uomo, avvolto da foglie (“l’uomo verde”) è l’incarnazione della rinascita, mentre quello della donna, la “Sheela Na Gig”: la fertilità. Al termine della pellicola, nella scena simbolica per eccellenza, vediamo come l’uomo verde incarni entrambi i ruoli iscritti nell’acquasantiera, dando alla luce prima il bambino (Samuel), poi il prete, successivamente Geoffrey ed infine il marito di lei, James il quale si siede a fianco ad Harper che gli chiede: “cosa vuoi tu da me? Amore”. Innanzitutto, vi è una forte rielaborazione dei ruoli maschili e femminili, non più netti e ben delineati, bensì ibridati vicendevolmente e corrotti da quei ruoli strutturali e prettamente socioculturali quali: il prete (il canone religioso), il bambino (l’infanzia), Geoffrey (il patriarca) e James (il marito). L’uomo verde rappresenta la natura, la perenne dicotomia fra innocenza infantile e la corruzione adulta dell’uomo contemporaneo (tecnico e parcellizzato), e poi c’è lei, Harper che combatte il trauma della morte di suo marito e al contempo, il simulacro della sua condizione di donna contemporanea. Dal cadavere del cervo nel cui occhio entra il risveglio della coscienza naturale (il pioppo), così avviene anche per lei; un risveglio, una presa di coscienza data dalla natura. Un ritorno, o forse una piccola deviazione in essa per liberarsi dai fardelli troppo pesanti della nostra vita. Men di Alex Garland è un film fatto a regola d’arte, scandito e ben delineato in ogni sua scelta registica. Il comparto tecnico è sublime, così come la sua struttura narrativa, forse eccessivamente didascalica sul finale ma sempre chiara e netta, colpendo al cuore e alla coscienza dello spettatore.