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Le vite leggere di Paterson e Hirayama

2025-04-15 11:00

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Le vite leggere di Paterson e Hirayama

di Luca Origo



Il cinema ci consegna spesso nuovi modi di guardare al mondo che ci circonda. Nuove lenti che, una volta indossate, possono far tremare le nostre certezze e scombinare l’ordine delle nostre priorità. “Paterson” (2016)  e “Perfect Days” (2023), diretti rispettivamente da Jim Jarmusch e Wim Wenders, sono due opere che colpiscono il pubblico attraverso una scelta radicale. La lentezza, i silenzi e la ripetitiva vita quotidiana dei loro protagonisti ne fanno il vero nucleo narrativo. Entrambi ricchi di temi, questi film sono collegati da un filo invisibile che ci interroga ad un livello molto personale. 


Se il mondo in cui siamo immersi ricorda un mare torbido e agitato, alcune vite riescono a restarne sulla superficie. Vite leggere come quelle di Paterson e Hirayama, nemmeno sfiorate dalle correnti che si muovono in profondità. Vite sempre capaci di sorprendersi di un ”qui e ora” mai davvero sorprendente. Risulta difficile non provare invidia per quei solidi castelli di carta e, rimuginando, ci si chiede se si possa davvero ambire ad un’esistenza “zen”. Privandoci di quella tensione che unisce desideri futuri e riverberi passati, otterremmo in cambio la felicità? Entrando nelle due case in questione, quella di Paterson in una piccola cittadina del New Jersey e quella di Hirayama nell’immensa Tokyo, e quindi entrando nelle loro storie riusciamo a coglierne ragioni e differenze. 


Il Paterson di Adam Driver scandisce il tempo della propria routine attraverso la scrittura di poesie. Celebrando con poche righe ogni frammento della sua quotidianità, l’uomo lascia che la poesia raccolga e condensi il suo eterno presente. Il suo autobus, il suo cane, la relazione con la sua compagna. A differenza di Laura, che nevroticamente ricerca una sua forma definitiva, Paterson non sembra conoscere aspirazioni. La sua vita leggera affonda le radici nella consapevolezza che la propria ordinarietà non manchi di nulla. La poesia in fin dei conti è lo strumento perfetto per rinnovare questa consapevolezza, ogni giorno come se fosse il primo. Perché se il presente ci riempie allora il passato può anche sfumare, come viene suggellato nell’inaspettato e memorabile incontro con cui si chiude il film. 


Anche Hirayama, interpretato da Koji Yakusho, mostra una grande sensibilità artistica. Nel suo caso, però, letteratura, musica e fotografia sembrano erigere un grande labirinto da cui è vietato evadere. Quando il passato dell’uomo si affaccia appena sulla sceneggiatura, la sua quotidianità assume ai nostri occhi l’aspetto di un rifugio sicuro. È qui che l’opera accarezza il fenomeno della jōhatsu (“evaporazione”), molto diffusa in Giappone, con cui molte persone abbandonano improvvisamente la vita precedente stabilendosi in quartieri lontani e ripartendo da zero. Rifugiandosi dai propri trascorsi, Hirayama si sta anche precludendo una qualsiasi forma di aspirazione futura. Dove le tante cassette di classici rock rafforzano il suo “oggi”, in uno dei momenti più emozionanti di “Perfect Days” è una canzone ascoltata dal vivo ad aprirgli una fessura verso il “domani”. In questo sbirciare, l’uomo si ricorda per un attimo la tensione misteriosa che scatta quando ci si immagina avere una vita diversa. 


E quindi, se Paterson conquista e rinnova quotidianamente una condizione esistenziale permeata dalla pace, lo stesso discorso non vale per Hirayama. Credendo forse di non avere altre scelte, l’uomo si costruisce attorno il simulacro di una vita leggera. Un apparentemente perfetto e maniacalmente custodito simulacro di felicità.



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