di Angela Pangallo
Dopo decenni di silenzio, finalmente il corpo trova voce. Con l’annuncio dell’Academy che a partire dal 2028 introdurrà una nuova categoria dedicata al miglior coordinamento stunt – prendendo in considerazione i film in uscita nel 2027 – si chiude una delle più ingiuste omissioni della storia degli Oscar. Non si tratta solo di un’aggiunta tecnica, ma di un riconoscimento simbolico che arriva a legittimare l’enorme contributo che gli stunt hanno dato al linguaggio cinematografico, pur rimanendo a lungo nell’ombra. Nel corso degli anni, registi, attori, sceneggiatori e perfino truccatori e sound designer hanno ricevuto la gloria dorata della statuetta. Ma coloro che, dietro le quinte (o meglio, davanti all’obiettivo), hanno spesso rischiato la vita per rendere autentiche le scene più memorabili, sono stati dimenticati. Eppure, la costruzione dell’adrenalina, la tensione visiva, il realismo corporeo (elementi essenziali di molti capolavori) passano proprio da loro. Essere uno stunt non significa solo cadere da un tetto, guidare a folle velocità o fingere di essere colpiti da un’esplosione. È una disciplina che unisce atletismo, precisione, conoscenza tecnica e drammaturgia fisica. Ogni gesto deve sembrare naturale, ma è frutto di calcoli, preparazione e ripetizioni esasperanti. Gli stunt, infatti, lavorano come coreografi del pericolo, ingegneri della suspense, attori silenziosi che mettono il proprio corpo al servizio della storia. La loro figura è cambiata con il tempo. Agli inizi, erano gli stessi attori a esibirsi in acrobazie pericolose, come nel caso di Buster Keaton, maestro dell’equilibrio e del rischio, capace di sfidare la gravità e la morte con un aplomb comico che ancora oggi lascia sbalorditi. Poi è arrivato il cinema d’azione più spettacolare: inseguimenti, cadute libere, combattimenti. A quel punto si è resa necessaria la figura dello stunt professionista, esperto di arti marziali, guida estrema, equitazione, immersioni, volo e ogni altra disciplina utile a ricreare l’impossibile. Tra i pionieri della professione, spicca il nome di Hal Needham, leggenda degli anni Settanta, che da stunt si trasformò in regista, dirigendo film cult come “Hooper” e “Smokey and the Bandit”. Needham ha incarnato la transizione tra il ruolo di esecutore e quello di autore dell’azione, un passaggio oggi sempre più comune grazie a figure come Chad Stahelski e David Leitch. Non vanno dimenticate le donne che hanno rivoluzionato il settore, come Zoë Bell, storica controfigura di Uma Thurman in “Kill Bill”, poi diventata attrice e regista. Bell ha dimostrato che lo stunt non è solo forza bruta, ma anche espressività, controllo del corpo e potenza narrativa. E oggi, fortunatamente, sempre più stunt performer donne si stanno facendo strada, in un ambiente che per troppo tempo è stato dominato da una cultura maschile. Nel corso dei decenni, il loro ruolo si è ampliato. Sono diventati non solo esecutori, ma veri e propri coordinatori di scena, ideatori di coreografie, responsabili della sicurezza e della resa spettacolare. Alcuni sono passati dietro la macchina da presa come Chad Stahelski, ex stuntman e ora regista della saga di John Wick portando con sé una visione nuova, centrata sul corpo e sul movimento. Altri hanno collaborato a film leggendari, pur restando anonimi al grande pubblico. E proprio questo anonimato è uno dei paradossi più evidenti: i momenti più indimenticabili della storia del cinema da un salto nel vuoto a un combattimento sul tetto di un treno spesso non sono stati interpretati dalla star protagonista, ma da un professionista che ha dato tutto, senza mai finire nei titoli di testa. Pensiamo a “Mad Max: Fury Road”, che ha ridefinito l’action contemporaneo grazie a una messa in scena fisica, reale, dove ogni esplosione, ogni capriola, ogni scontro è stato girato dal vero. O alla saga di “Mission: Impossible”, con Tom Cruise che ha voluto compiere personalmente acrobazie impossibili, ma solo dopo mesi di preparazione con il suo team di stunt. In questi casi, gli stuntman non sono sostituti: sono co-protagonisti invisibili, fondamentali per costruire la tensione e la credibilità. Lo stesso vale per “John Wick”, dove il realismo dei combattimenti nasce dalla collaborazione con un team di stunt capaci di reinventare la coreografia delle arti marziali. E prima ancora, per le pellicole di Jackie Chan, che ha unito comicità e azione con una dedizione fisica al limite dell’autolesionismo. In tutti questi casi, il corpo è al centro del racconto. Un corpo che cade, salta, resiste, muore e rinasce. Il riconoscimento dell’Academy arriva dopo anni di pressione da parte della comunità cinematografica. Non solo registi e attori, ma anche associazioni di categoria come la SAG-AFTRA e la Stuntmen’s Association of Motion Pictures hanno a lungo chiesto una legittimazione formale. Campagne, petizioni, documentari e dibattiti pubblici hanno costruito, anno dopo anno, un consenso sempre più forte. Alla fine, l’Academy ha dovuto ascoltare. Anche se oggi il digitale ha trasformato molte dinamiche produttive, sostituendo in parte il pericolo reale con la simulazione, resta intatto il valore della fisicità reale, soprattutto per il pubblico che magari inconsciamente percepisce la differenza tra un salto vero e uno digitale. L’elemento umano, con la sua imperfezione e vulnerabilità, continua a generare un’empatia che nessun effetto speciale può eguagliare. Al tempo stesso, la tecnologia ha aperto nuovi scenari: il motion capture, la realtà aumentata, la virtual production. E anche in questi ambiti, gli stunt performer stanno trovando nuove modalità di espressione. Perché dietro un personaggio digitale che si muove come un ninja o un supereroe c’è spesso un acrobata in tuta grigia, che presta al software i propri muscoli, i propri riflessi, la propria presenza scenica. L’introduzione di un Oscar per il miglior coordinamento degli stunt significa finalmente dare un volto e un nome a chi quel volto ha dovuto spesso nascondere, per esigenze narrative e contrattuali. È un atto di giustizia, ma anche una dichiarazione d’intenti da parte dell’industria: valorizzare il mestiere, formare nuove generazioni, raccontare il cinema anche da un punto di vista tecnico e corporeo. In fondo, lo stunt rappresenta un’idea antica di cinema: quella del gesto, dell’illusione costruita con il sudore e la fatica, dell’emozione che passa attraverso il corpo prima ancora che attraverso la parola. Premiarlo significa ricordare che il cinema, prima di essere immagine o racconto, è movimento. E che il movimento, quando è vero, ha un cuore che batte.