#InSala
Paternal Leave è un film fatto di silenzi, sguardi, piccoli gesti. Espressioni che si accendono e si spengono sui volti, sguardi che si cercano nel tentativo di leggere l’altro, occhi che si perdono in un epilogo già intuito. È il debutto alla regia di Alissa Jung, che sceglie di raccontare una storia forse già vista, ma che nella messa in scena, nella recitazione e nei dettagli di contorno trova la sua autenticità. Una semplicità che diventa forza: il ritmo è pacato, misurato, mai compiaciuto. Perfetto per restituire l’essenza emotiva del racconto. Jung dimostra di avere le idee chiare: non vuole sovvertire i codici del cinema, ma affidarsi a una regia discreta e attenta, lasciando spazio ai personaggi e ai loro paesaggi interiori. Nessuna ambizione d’autorialità forzata, solo sensibilità e misura.
Tu non sai quanto è difficile la vita. Avevo solo ventun anni.
L’altro pilastro del film è il carisma dei suoi interpreti. Luca Marinelli (nonché marito della regista) restituisce al suo personaggio quella ruvida empatia che lo contraddistingue nei ruoli più intimi, come in Il principe libero. Qui lavora per sottrazione: frasi sussurrate, tenerezza trattenuta, esplosioni emotive dosate con precisione. I suoi scambi con Juli Grabenhenrichevocano, per intensità e delicatezza, l’alchimia spezzata tra Paul Mescal e Francesca Corio in Aftersun di Charlotte Wells (anch’essa al suo esordio).
La giovane attrice tedesca regge con naturalezza anche i primi piani più spigolosi che la regista le riserva, trovando un contrappunto efficace nella sorprendente interpretazione di Arturo Gabbriellini (già visto in WeAre Who We Are di Luca Guadagnino). Perfetto nel ruolo del ragazzo di provincia, fattorino sempre in sella al motorino, in piena ricerca di sé. Il suo incontro con una ragazza berlinese, gender neutral, che ascolta KaeTempest e ha già compiuto scelte identitarie nette, è uno dei momenti più autentici e delicati del film.
Paternal Leave, sotto la superficie, racconta il peso delle responsabilità affrontate troppo presto. Lo smarrimento che si fa fuga – una fuga lunga quindici anni. Ma il passato, in un modo o nell’altro, trova sempre la strada per tornare. Più in profondità, il film riflette sulla fatica di diventare adulti, e, ancora più giù, sul dolore sottile ma persistente che accompagna la morte della giovinezza – e su quel desiderio, fragile ma tenace, di rimediare, di ricominciare.
– A quanto ti piace prendere le cose.
– E tu a perderle.
Il film è essenziale anche nelle sue imperfezioni, come i suoi personaggi e i luoghi che abitano. La fotografia di Carolina Steinbrecher rinuncia a ogni estetica patinata o artificiosa, preferendo una luce naturale, discreta, che accompagna senza mai invadere. Solo nel finale la narrazione mostra qualche incertezza: alcuni espedienti simbolici — la scomparsa di Emilia, il fenicottero investito, il van che blocca la strada — risultano forse troppo espliciti. Ma ancora una volta, è nel non detto che il film trova compimento. I protagonisti si dicono tutto senza parlare. E quando partono i titoli di coda, sono le parole di Giorgio Poi – cantate da Marinelli – a sciogliere il nodo:
(…) e tu, sempre di più. Mi convinci che questo nodo nella gola si scioglierà, si scioglierà, quando passerà l'inverno e tutte le paure, certo spariranno in un momento. E ridere per questo. Vivere per questo. Diventare questo. Mantenere tutto quello che hai promesso…