di Luca Origo
Ricordare una vita, per scoprire vicine storie altrimenti sconosciute. Ricordare un artista, per tornare sui suoi temi e riaprire le sue ricerche. Ricordarne il cinema, per riscoprirne la bellezza e le battaglie. Il 26 maggio 2015 moriva Claudio Caligari (Arona, 1948), regista e sceneggiatore iperattivo di cui non si contano i progetti preparati, ma successivamente inutilizzati o cancellati. Tre lungometraggi sono bastati per inserirlo tra i più talentuosi autori di un certo cinema sociale strettamente legato al territorio italiano.
Per Caligari lo studio del soggetto era imprescindibile: raccontare ogni contesto dal suo interno, avendone conosciuto in prima persona i rituali e le contraddizioni, era l’unica soluzione percorribile. Questo modus operandi si riscontra fin dai suoi primi lavori dove la macchina da presa si fa strumento per indagare la contemporaneità. Se nel 1976 con “Droga che fare” Caligari aprì una discussione sulla diffusione della tossicodipendenza giovanile, con “La parte bassa” nel 1978 furono le origini di un movimento politico e culturale milanese (noto come il “movimento del ‘77”) ad essere analizzate da vicino.
Il tema della droga tornò centrale nel film d’esordio di Caligari, intitolato “Amore tossico” (1983) e ambientato a Ostia. La periferia romana e le sue borgate vengono guardate attraverso una lente che non cerca nessuna bellezza estetica o formale, in favore di una cruda verità. Il film si rifà al cinema di Pier Paolo Pasolini e alla sua attenzione per gli spaccati sociali più marginali della capitale. Il copione, scritto a quattro mani con il sociologo Guido Blumir, risente dei commenti e delle variazioni apportate in corso d’opera da tutto il cast. Attori e attrici non erano professionisti, ma veri tossicodipendenti che entrarono in contatto con Caligari solo nelle settimane precedenti l’inizio delle riprese, mentre frequentava quegli stessi quartieri nel tentativo di conquistarne la fiducia.
Quando il film venne presentato alla Mostra del Cinema di Venezia, non furono tanto i temi trattati ad accendere dibattiti, quanto l’approccio immersivo adottato dalla troupe e le malelingue sui membri del cast. Emblematico fu un confronto televisivo (che si può parzialmente recuperare su YouTube), in cui Caligari, Blumir e il cast si trovarono a difendere la pellicola dalle critiche del giornalista Alberto Farassino. Con loro si schierò il regista Marco Ferreri, grande sostenitore del lavoro di Caligari, che sottolineando l’esistenza di un filo rosso coi film di Pasolini, concluse: “oggi “Accattone” (1961) non avrebbe la forza che può avere questo film”.
“L’odore della notte” (1998) fu il secondo lungometraggio di Caligari. Ispirato a fatti realmente accaduti, il dramma tratteggia l’assalto all’alta borghesia romana da parte di una banda di criminali. In Valerio Mastandrea, il regista non trovò solo il volto giusto per esprimere il disagio di una classe proletaria abbandonata e violenta, ma anche un grande amico. Proprio l’attore, anni dopo, si spenderà per produrre e promuovere in tutti i modi il terzo, e ultimo lungometraggio di Caligari. Tornando nelle stesse location di Ostia dopo 30 anni, “Non essere cattivo” (2015) riapre la ferita lasciata da “Amore tossico” per raccontare una nuova storia di dipendenza e di amicizia attraverso i volti di due giovani Luca Marinelli e Alessandro Borghi. Lo sforzo collettivo che ha permesso a quest’ultimo copione di diventare un film è molto ben descritto (intersecato da testimonianze di amici, colleghi e familiari) nel documentario del 2019 “Se c’è un aldilà sono fottuto”, diretto da Fausto Trombetta e Simone Isola.