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Ricordando Agnès Varda

2025-05-30 01:44

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Ricordando Agnès Varda

Frammenti di Varda - Articolo collettivo della Redazione.

 Agnès Varda, fotografa, regista e sceneggiatrice, nasce il 30 Maggio 1928 a Ixelles in Belgio, la sua è una personalità refrattaria a qualsiasi convenzione, con un punto di vista sempre articolato e defilato, caratterizzato da una grande libertà espressiva che si configura nell'intersecarsi nelle sue opere di differenti forme d'arte.
La sua carriera da cineasta inizia nel 1954 quando nasce il suo primo lungometraggio: “Le pointe courte”, anticipatore della Nouvelle Vague e dal quale si delinea la tendenza intimista della regista, che comunica attraverso immagini che rapiscono lo sguardo dello spettatore che si immerge in esse, nella loro vivacità quasi infantile e nella loro purezza primigenia.Queste ci rendono in grado di toccare la realtà con mano, di dialogare con essa, di penetrare nel profondo mettendo in luce ciò che del reale è considerato come superfluo.La regista dona valore alle piccole preziosità che si perdono nel disordine dell’esistenza, le cattura, fissandole davanti i nostri occhi, così da renderle visibili, riconoscibili, così che ognuno di noi possa farle proprie.
Il suo cinema, fa confluire il documentario nella fantasia, si caratterizza da una costante ricerca visiva, una libertà formale che fa di ogni suo film un’esperienza profonda e complessa.Agnès Varda si accosta con delicatezza alla vita e la illumina attraverso le sua visione, ce la restituisce nella sua forma più pura e naturale, segue il flusso della sua coscienza lasciandosi trasportare e riflettendo le sue molteplici sfumature in quel suo raccontare vitale, leggero e intenso allo stesso tempo.
Di Giulia Losciale


L’Opéra-Mouffe (1958)
Quella de L’Opéra-Mouffe è una Agnès Varda senz’altro particolare che, incinta della sua prima figlia, decide di girare per una stradina di Parigi filmando i dintorni con la sua cinepresa. Uomini, donne, anziani e bambini; tutti quanti vengono immortalati dall’occhio della regista che, però, sceglie di adoperare un determinato registro estetico che rende impossibile considerare L’Opéra-Mouffe una semplice prova documentaria/diaristica. Infatti, quella rappresentata da Varda, è un’immagine che, in determinati momenti, per atmosfere si avvicina ai mondi sperimentali di Maya Deren e a quelli surreali/onirici di Buñuel e Cocteau, artisti che si contraddistinguono per opere estremamente concettuali, che danno priorità non tanto a una costruzione narrativa canonicamente intesa come classica, quanto più a un'immagine suggestiva e melliflua, agitata da particolari spunti estetici che puntano alla sensorialità che il visuale può suscitare attraverso associazioni di situazioni e simboli. Detto questo però, la Parigi de L'Opéra-Mouffe è comunque da considerarsi un luogo tangibile, con una sua precisa concretezza; a destabilizzare le cose sono, più che altro, i vari intermezzi inseriti da un montaggio che lavora in maniera espressiva.Tali parentesi affiancano le immagini di Rue Mouffetard, contrapponendosi al lato realistico del corto con una messa in scena che esula dal documentarismo visivo proponendo delle vignette più astratte, dall’aria sospesa e simbolica che sembrerebbero voler riflettere sul concetto stesso della vita umana nelle sue fasi. D’altronde parte tutto dall’immagine di una donna incinta -associabile alla stessa regista - che, totalmente svestita, se ne sta seduta su uno sgabello, su uno sfondo totalmente nero. Da quel momento in poi il film diventa una parata di diverse figure: giovani innamorati, vecchie e anziani signori si ritrovano a “sfilare” davanti la cinepresa accompagnati da una canzone di sottofondo che si pone in costante dialettica con

il lato visivo. Unendo questi fattori, L’Opéra-Mouffe di Varda si presenta come un lavoro che utilizza il filmico e i suoi elementi in modo tale da poter creare un percorso concettuale che al suo compimento pare voler dire una cosa sola: “tutto scorre, pantha rei”. Da una donna incinta nasce la vita, un bambino, un vecchio, una vecchia, degli amanti; ognuna di queste cose è trovabile negli occhi materni di Varda, nel suo sguardo verso una Rue Mouffetard a volte anche fatiscente, ma che diventa metafora del mondo.
Cleo de 5 à 7 (1962)
Il legame tra la regista belga naturalizzata francese Agnes Varda e il suo film Cleo dalle 5 alle 7 è indissolubile e assolutamentecentrale all’interno della sua opera artistica, talmente rilevante da rischiare, come infatti è accaduto, di essere totalizzante di fatto circostanziando l’analisi critica della regista al suo capolavoro.Dunque l’obiettivo di questi scritti è anche quello di far emergere la varietà dell’opera di Varda, soprattutto la forza e la portata della sua vis sperimentale, la spinta alla continua ricerca di altre strade,spesso alternative a quelle del cinema di finzione. Da questi presupposti nasce quindi l’attenzione per il documentarismo e per l’innovazione delle forme di classiche di racconto; una presa di posizione estetica e politica che porterà la sua arte sulla via di una sperimentazione costante e sempre crescente che passeràattraverso il recupero del cortometraggio fino ad arrivare alle installazioni plastiche in un processo e un’evoluzione artistica lineari anche se non del tutto privi di oscurità. Tuttavia anche in un’analisi che vuole essere aperta, frammentaria e caleidoscopica come quella che ci proponiamo di fare per abbracciare forse nel modo più coerente possibile l’opera di Agnes Varda, appare irrinunciabile soffermarsi, seppur brevemente, su questo filmquantomeno per rilevare alcuni degli elementi centrali della poetica della regista che qui emergono esemplarmente. L’obiettivo di queste righe non sarà dunque

quello di condurre un’analisi esaustiva dell’opera che richiederebbe uno spazio e un tempo incomparabilmente maggiori, bensì cercare di definire l’importanza dell’opera attraverso le sue coordinate storico-formali.
L’importanza di Clèo nella carriera di Agnes Varda è direttamente collegata alla forza dirompente di un’opera che già dalla sequenza iniziale dichiara le intenzioni di rottura della regista, rivela la compiutezza di un’elaborazione teorica che si proietta direttamente nella modernità e anticipa degli elementi che saranno centrali nella sua evoluzione artistica. È proprio su questo doppio binario che mi sembra interessante procedere, ossia quello di un’opera che da una parte si configura come punto di partenza, come embrione di una poetica personale che si evolverà a partire da precise premesse ed elementi presenti nel film; e che dall’altra parte dimostra invece una finitezza e una maturità stupefacenteesemplificate dal legame armonico tra forma e contenuto ossiaquell’unione inscindibile tra elaborazione linguistica del materialefilmico e riflessione contenutistica e filosofica. Si tratta dunque di tenere contemporaneamente in considerazione l’asse diacronico e l’asse sincronico su cui si muove il film, in modo da rilevare ed evidenziare l’importanza capitale dell’opera all’interno del percorso artistico di Agnes Varda e nell’evoluzione dell’arte cinematografica in generale.
Clèo dalle 5 alle 7 è il secondo lungometraggio della regista belga realizzato cinque anni dopo l’esordio cinematografico La pointe courte, progetto nato inizialmente come mediometraggio e giratocon mezzi di fortuna, poi allungato e rimontato con la collaborazione di Alain Resnais.

Distribuito nel 1955, dunquequalche anno prima dei coevi esordi dei colleghi francesi, La pointe courte è considerato il film iniziatore della Nouvelle Vague. Nonostante la regista abbia sempre rifiutato la propria collocazione all’interno del gruppo, ci rifacciamo in questo caso alla larga accezione del termine intendendo quindi quell’ ondata di rinnovamento formale, tecnico e politico che, partendo dalla Francia, ha traghettato il cinema nella modernità. In ogni caso al di fuori di complesse questioni riguardanti categorie e tassonomie critiche, è innegabile che sia Clèo il film che impone definitivamente la Varda agli occhi del pubblico, della critica specializzata e dei giovani cineasti su cui eserciterà un’influenza non trascurabile, anche e soprattutto in relazione alla citata Nouvelle Vague (che rimane comunque l’orizzonte di appartenenza del suo cinema almeno nella prima fase della carriera), e la porterà a svolgere un ruolo di primo piano nel rinnovamento del cinema francese e mondiale in termini sia di linguaggio che di contenuto.
Come accennato l’idea alla base di questi articoli è quella di un’analisi che procede a salti, per illuminazioni e fugaci frammenti e che comprenda punti di vista diversi che, rimbalzandosi a vicenda, rispecchino idealmente il carattere aperto dell’opera di un’artista perennemente insoddisfatta, impegnata nell’instancabile ricerca di nuovi modi di catturare la vita restituendola sotto forma di immagine. Il ruolo giocato da Cléo dalle 5 alle 7 è dunque evidente e fondamentale. Fin dagli esordi infatti Varda dimostra un disinteresse per le strutture del racconto classico, ricerca nuovi modi di ritrarre la verità della vita troppospesso nascosta dietro azioni convenzionali e personaggi stereotipati. Varda opera tramite sottrazione e

in senso centripeto: elimina ogni elemento di trama esterno e si concentra su un unico personaggio che pedina incessantemente per tutta la durata del film spostando l’azione dall’esterno (la città, i personaggi, i dialoghi) all’interno (la mente di Cléo), ovvero passando dal visibile all’invisibile, da ciò che è noto a ciò che è nascosto esclusivamente dentro la realtà dell’immagine. A tutto questo aggiunge una serie di elementi che arricchiscono la densità dell’opera e la proiettano in ideale dialogo con le più avanguardistiche elaborazioni teoriche della modernità.Innanzitutto un’impostazione di ripresa di tipo semi-documentaristico che contiene i prodromi di una via artistica che svilupperà in seguito; il gioco e il divertimento metalinguistico che rivela l’interesse per il recupero della forma del cortometraggio e il linguaggio del cinema muto; e per finire una riflessione sul tempo perfettamente coerente con i contemporanei sviluppi teorici del cinema, basti pensare agli studi di Gilles Deleuze, il quale individua proprio nel nuovo rapporto dell’immagine con il tempo l’elemento centrale della modernità cinematografica
Nell’ora e mezza in cui assistiamo alla trepidante e angosciosa attesa della protagonista Cléo, convinta di essere gravemente malata, dell’appuntamento con il medico previsto per le 19:00, Varda racchiude l’essenza stessa di un nuovo modo di pensare l’arte cinematografica nella sua interezza. Confeziona e regala al mondo un manifesto di un cinema ancora da farsi in cui sono definitivamente crollate le barriere tra realtà e finzione, dove l’azione coincide con la riflessione, il tempo sembra inciampare, fermarsi e accelerare all’improvviso e il cinema si fa tutt’uno con la vita.

Le bonheur (1965)
Il prato verde dell’amore: semi di luce nel cinema di Agnès Varda.
Nel cuore della campagna francese, tra le pieghe di un paesaggio quieto e ostinato, Agnès Varda pianta un film come si pianta un albero: con pazienza, cura e mistero. Le Bonheur, Cléo, Sans toit ni loi: ogni titolo della sua filmografia è un frammento di un discorso più ampio, un mosaico di corpi, tempo e sguardi. Ne Il prato verde dell’amore (Le Bonheur, 1965), Varda non racconta solo una storia, ma tesse un canto dolce e inquieto sull’idea stessa di felicità e libertà.
Sotto la superficie luminosa e ordinata di un mondo apparentemente sereno, Varda lascia intravedere crepe, dubbi, ombre. A dominare non è il racconto, ma lo sguardo, in questo caso profondamente materno e anarchico: non giudica, non semplifica, non stabilisce gerarchie. La macchina da presa accompagna, indiscreta, muovendosi tra i personaggi come una presenza amica, accarezza il paesaggio come un pensiero che prende forma. Il prato verde dell’amore è dunque più di un titolo: è un’idea. Realizzato nel cuore degli anni Sessanta, il film vive della doppia tensione di quell’epoca: da un lato l’utopia di un mondo nuovo, più libero, più aperto ai desideri; dall’altro il timore che sotto le nuove libertà possano nascondersi nuove prigioni. La Nouvelle Vague è ormai esplosa, ma Varda - da sempre figura eccentrica al suo interno - ne condivide l’energia più che le regole. Il suo cinema è artigianale, riflessivo, femminile nel senso più profondo e politico del termine. Qui, l’amore non è solo un sentimento: è un

paesaggio, un ritmo, una stagione. Il prato verde dell’amore è visivamente ingannevole: colori saturi, composizioni armoniose, volti sorridenti, ed è proprio in quella perfezione che la regista belga scava, lentamente, con una violenza delicata e sconvolgente. L’estate che descrive non è solo un tempo, ma un’illusione emotiva. Varda non giudica, bensì invita a guardare con attenzione un immaginario affinché possa essere decostruito. Il suo femminismo è ovunque: nell’attenzione ai dettagli, nei silenzi delle protagoniste femminili, nella possibilità che ogni scelta - anche la più semplice - sia portatrice di senso. In un tempo in cui il cinema d’autore era quasi esclusivamente maschile, lei coltivava un altro linguaggio: fatto di sfumature, di sospensioni, di intuizioni. Il suo cinema non pretende di spiegare, ma di sentire. Così, Il prato verde dell’amore resta un film che non si lascia afferrare del tutto, come un sogno a occhi aperti. È un film che cresce dentro chi guarda, come cresce l’erba in primavera: silenziosamente, tenacemente, poeticamente.
di Eleonora Verardi


Uncle Yanco (1967)
In questo corto-documentario del 1967 Agnès Varda esplora la realtà di uno zio mai conosciuto, Uncle Yanco, un pittore che vive a San francisco in una casa galleggiante e si racconta con tono lieve e sognante, attraverso immagini sensoriali che evocano un senso di vicinanza e di affetto; Un uomo che attraverso i suoi racconti che si percepiscono come carezza si rivela un'anima pura, fine, introspettiva e affine alla natura.
Quello in cui veniamo guidati è un universo atemporale, libero dalle convenzioni in cui la società ci costringe, nel quale non esiste il peso schiacciante che spinge

l’essere umano a dover produrre e dimostrare per legittimare la propria presenza nel mondo.Ognuno occupa la sua piccola porzione di spazio sulla terra, trovando la completezza nel suo puro esistere e nel seguire le proprie inclinazioni naturali.
Si tratta di una realtà caratterizzata da equilibri propri ed abbracciata dal mare, fonte di ispirazione e speranza, che la isola e la protegge, donandole una purezza rara.Quest’opera ci dimostra la relatività del tutto, come i valori umani siano costrutti artificiali, completamente irrazionali, come questi possano essere ridisegnati, come il necessario sia superfluo, come sia importante abbandonarsi ai tratti del proprio disegno interiore entrando in armonia con la realtà.L’arte qui è il nucleo di ogni cosa, tutto in essa si dematerializza, parla attraverso l’astrattezza delle sue manifestazioni, i colori si mescolano tra loro narrando l’essenza più profonda dell’esistenza.
L’invito è quello di lasciarsi andare alla sua sublime bellezza che ci libera e ci salva, a lasciarci investire dalla piacevole perturbazione che provoca l’irrazionale, dalla confortante consapevolezza delle infinite disponibilità di cui dispone l’uomo per dipingere il mondo con i propri occhi.
Di Giulia Losciale
Daguerréotypes (1975)
Ispirandosi alla prima tipologia di sistemi fotografici, Agnès Varda realizza nel 1975 Daguerréotypes, documentario in cui effettua una retrospettiva sulle vite di commercianti e artigiani di Rue Daguerre, nel XIV arrondissement parigino, nel raggio di 50 metri dalla sua abitazione.Il documentario ha un’impostazione da lungometraggio di fiction, evidente dall’attenzione maniacale nelle inquadrature. Varda alterna camere fisse al di fuori delle vetrine in cui si diletta ad imitare l’occhio di un passante che si ferma interessato alla scena interna al negozio, a camere mobili (più prevalenti di quelle fisse). Quando tiene la camera a spalla la regista ha due principali intenti: seguire le persone nelle strade, il loro modo di passeggiare, le loro espressioni, quando vanno in bici oppure in moto - le osserva nei dialoghi quotidiani, ricchi di vita, quella vera, fatta di impegni e malanni; oppure seguire i commercianti nelle loro mansioni, con un piano più ravvicinato – riprende l’opera lavorativa: il macellaio che taglia la carne, il sarto all’opera, il panettiere. Tenta però di scovare anche la noia dell’attimo di attesa, l’imbarazzo, le indecisioni del cliente. Riprende i momenti di apertura del locale e di chiusura.

Dopo averci presentato i protagonisti, Varda cerca l’exploit emotivo come lo si fa da sempre: raccontando storie. Storie in cui poter immaginare, fare supposizioni, incamminarcisi. Ci sono quindi vari momenti in cui i commercianti si raccontano.Interessanti soprattutto dal punto di vista tecnico sono le sequenze in cui vengono cuciti dei parallelismi tra i trucchi di magia di un illusionista e le vite dei commercianti: particolarmente emozionante sarà l’analogia tra la manualità dell’illusionista e quella degli artigiani. Lì, in quei pochi istanti di montato sono condensati anni e anni di esercizio e pratica quotidiana, di passione, ma anche di noia, rimpianti e sofferenze: sarà commovente osservare la maestria di persone che dedicano una vita ad un mestiere. Proprio quest’ultima, la dedizione cieca alla professione, unita alla noia e i doveri della vita vera, costituiranno i temi della disincantata sequenza finale.
Alla fine della visione lo spettatore si interrogherà se quello che ha appena visto sia “un reportage, un omaggio, un saggio, un rimpianto, un rimprovero o un approccio”, ma quello che la regista ci dice in realtà è di passare oltre. Agnès Varda quindi ci suggerisce a bassa voce che è solamente frutto del pensiero di una semplice donna di quartiere appassionata di fotografia. In effetti, l’origine e la forza di questo documentario stanno nel suo concepimento: guardando la vetrina “sospesa nel tempo” del Chardon Bleu, caratteristico negozio di quartiere, Varda si trova a fantasticare sul concetto di tempo. Il tempo pervaderà ogni secondo di girato: il tempo come passa in quel piccolo negozio del suo vicinato; il tempo delle attese davanti alla vetrina aspettando i clienti; il tempo della manodopera per la messa a punto di un orologio antico o il tempo utile per la lievitazione del pane; il tempo di una passeggiata lungo la via per fare due commissioni.
Il tempo di una vita concentrata in un quattro mura, in una manciata di movimenti, in una manciata di nozioni, in una moltitudine indefinita di tentativi, prove, errori, migliorie. Cosa racchiude, meglio di una fotografia, il tempo di una storia in uno sguardo? A tale scopo, il dagherrotipo, simulato nelle ultime scene quasi come fossero titoli di coda, conferirà ancora maggior espressività e la sua ambivalenza sarà la chiave: dinamicità –

l’esposizione della lastra richiedeva fino a qualche minuto – e puntualità – l’immagine scattata sarà una e una sola, per sempre.
Sans toit ni loi (1985)
Il cadavere di una ragazza viene ritrovato in un fossato e una voce fuori campo informa che si tratta di una senzatetto; la voce è quella di Varda e annuncia di volerne raccontare la storia. È così che muove i primi passi Sans toit ni loi, Leone d’oro alla Mostra del cinema di Venezia del 1985, storia della giovane vagabonda Mona (Sandrine Bonnaire), il cui percorso viene fotografato dalla prospettiva di un’oggettivita estremamente condizionata dal dato soggettivo. Da un lato, infatti, allo spettatore viene proposto ilsusseguirsi dei momenti salienti degli ultimi mesi di vita della ragazza registrati in modo asettico, al limite del case-study;dall’altro, ogni episodio, ogni momento, è accompagnato dal commento e dalla valutazione complessiva della vicenda offertodai differenti personaggi che hanno incrociato il cammino della ragazza.
Una dopo l’altra vediamo sfilare sullo schermo le figure delle donne e degli uomini che hanno provato a comprenderla, ad aiutarla o che più banalmente esprimono tra loro un’opinione su questa personalità singolare. Perché Mona, ex dattilografa che ha preferito la strada alla scrivania, offre l’occasione di riflettere sulle coordinate all’interno delle quali la nostra vita è inserita.
Il rigore documentaristico che informa il lavoro è, dunque, ampiamente stemperato dalla fiction da cui trae origine: sono queste le regole non scritte della cinécriture, la teoria fondante dell’universo cinematografico di Varda (che, non a caso, lo considererà anni dopo il film in cui meglio aveva trovato realizzazione la sua idea di cinema). Ma non c’è solo questo.
La scelta da parte dell’autrice di non esprimere un giudizio sulla vicenda di Mona non implica l’assenza dell’elemento sociologico, ma lo evidenzia per negazione. La critica alla società emerge gradualmente con l’acuirsi del contrasto tra la morale del mondo (ossia quella degli uomini, a prescindere dalla loro posizione sociale) e quella della protagonista, nel ribaltamento semantico che contrappone la sporcizia che gli altri vedono sul suo corpo a quella che lei vede nelle loro menti.
Senza tetto né legge, ossia senza una costruzione fisica entro cui sostare abitualmente e senza una astratta all’interno della quale iscrivere le proprie scelte, Mona cammina da sola. Ed è forse questa solitudine a risultare l’elemento più difficile da comprendere per lo spettatore.

di Mauro Azzolini


Les plages d’Agnès (2008)
«se aprissimo le persone troveremmo paesaggi, se aprissimo me troveremmo spiagge»
In questa autobiografia cinematografica Agnès Varda ci guida nelle sue memorie, nell’esplorazione dei luoghi che formano parte di ciò che è, che riflettono la sua anima.La regista compie un dissezionamento di sè, ci immerge in un intimo diario che interseca tra loro storie di vita e vicende umane a sequenze cinematografiche che formano un connubio indissolubile, annullandosi le une nelle altre.Queste si succedono vivacemente assorbendo lo spettatore in un processo di immedesimazione totale in questa colorata e vivace rappresentazione della vita.Le opere cinematografiche qui si convertono in stagioni dell’esistenza, entrambe coinvolte in un processo di reciproca caratterizzazione.Il tema del ricordo è centrale, questo penetra nel presente riportando in vita il passato e arricchendolo di nuove connotazioni, l’alternanza di piani temporali mette in evidenza come ogni cosa si mantenga in vita finché viene custodita e celebrata nel cuore di chi l’ha vissuta.Tutto si configura in un dipinto, colorato, puro, autentico, fatto di storie raccontate con delicatezza e introspezione per far si che possano rimanere incise in chi ne è spettatore. Si tratta di una celebrazione della vita, nella sua totalità in cui ogni cosa appare lieve e leggera, tanto il dolore quanto l’amore.La potenza visiva e il carattere evocativo di ogni immagine ci permette di sentirci completamente assorbiti dai luoghi che sono narratori e protagonisti assoluti, colmi di emozioni e di memorie che sprigionano nel loro silenzio.Sono l’essenza più profonda di Varda che decide di darla in dono allo spettatore per far si che la sua dimensione interiore possa essere letta e compresa passeggiando sulle spiagge della sua esistenza, osservando l’infinito dell’orizzonte e ripercorrendo un passato che allo stesso tempo è vivo e presente.

Di Giulia Losciale
 

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